sabato 6 luglio 2013
E LA CHIAMANO ESTATE (Paolo Franchi)
Un film di Paolo Franchi. Con Isabella Ferrari, Jean-Marc Barr, Luca Argentero, Filippo Nigro, Eva Riccobono, Anita Kravos, Jean-Pierre Lorit, Christian Burruano, Maurizio Donadoni, Romina Carrisi
Drammatico, durata 89 min. - Italia 2012. - Officine Ubu uscita giovedì 22 novembre 2012. - VM 14 -
Dino ha quarant’anni e un amore smisurato per Anna, che non riesce a toccare e a consumare in un amplesso. Anestesista di giorno, amante compulsivo di notte, cerca soddisfazione con prostitute e scambisti. La morte precoce del fratello e l’abbandono della madre lo hanno segnato profondamente e lo conducono alla dipendenza sessuale. Respinte le amorevoli cure e le morbide avance di Anna, Dino recupera e incontra gli ex della compagna, pregandoli di tornare con lei o di appagarne il piacere che lui le nega. Allontanato o guardato con compassione, l’uomo chiede ad Anna di trovare un amante appassionato. Anna, prima riluttante, finisce per cedere, concedendosi qualche notte di sesso con uno sconosciuto. Ma il sentimento che nutre per Dino è più potente della frustrazione e di qualsiasi piacere fisico. Tornerà a casa ma forse per lei e per Dino è davvero troppo tardi per ricominciare. Il terzo lungometraggio di Paolo Franchi si muove tra la canzone di Bruno Martino (“E la chiamano estate”), che titola il film, e quella di Rita Pavone (“Che mi importa del mondo”), che lo chiude con un rigore quasi geometrico. La voce di Bruno canta la perdita e l’assenza di chi abbiamo amato e non smettiamo di amare, i versi della Pavone dicono invece la vicinanza e la presenza del diletto, esemplificando i movimenti sentimentali ed estremi della coppia protagonista, chiusa in una camera ideale. Franchi tenta una narrazione per sentimenti, musica e immagini, realizzando un (melo)dramma elegante e gelido dentro un’apparente atemporalità. Se Nessuna qualità agli eroi affrontava con tratti altrettanto estetizzanti la sterilità dell’anima, E la chiamano estate sperimenta l’inappetenza sentimentale attraverso una coppia che mette in scena la non possedibilità dell’amore. Il Dino ‘anestetizzato’ di Jean-Marc Barr riempie il vuoto con l’esercizio compulsivo di una pratica sessuale, intuendo che fuori, nel mondo e in una camera bianca, c’è qualcosa di meglio, qualcuno da vivere. Ma tutta quella bellezza il protagonista l’ha abiurata, in un tempo lontano che ritorna dentro le fotografie e le testimonianze di chi lo ha conosciuto, scegliendo per sé l’abiezione e la dannazione. La spirale della vergogna procede allora dentro gironi sempre più stretti, in cui si abbandona e si dissolve l’Anna smarrita e muta di Isabella Ferrari, provando a intralciare con un sentimento impegnativo la discesa libera dell’amato. E nella caduta il protagonista trascina con sé anche il suo autore, inghiottito nelle acque nere dei titoli (di apertura). Se il cinema di Franchi ha l’indiscusso coraggio di andare oltre i canoni consolidati del realismo e oltre le ovvietà di troppo cinema italiano, ancora una volta la sensazione è che i suoi soggetti (sempre interessanti) finiscano per cedere al manierismo del racconto, sprecando i concetti evocati e le inquietudini innescate. Stilisticamente irrisolto, E la chiamano estate soffre in aggiunta di dialoghi automatici il cui problema è la (in)credibilità. La difficoltà di essere creduto traumatizza e compromette qualsiasi relazione con i destinatari del film, mai coinvolti o commossi, mai sfiorati o ‘toccati’. Come Dino, Paolo Franchi sembra abdicare la pratica dell’emozione, finendo travolto dalla sua filosofia, dalla sua idea di cinema autarchico, autistico,‘suicida’.
tres
UN UOMO DA MARCIAPIEDE (John Schlesinger)
Un film di John Schlesinger. Con Jon Voight, Brenda Vaccaro, Dustin Hoffman, Sylvia Miles, Bob Balaban.
John McGiver, Barnard Hughes, Ruth White, Jennifer Salt, Gilman Rankin, Gary Owens, T. Tom Marlow, George Eppersen, Al Scott, Linda Davis, Ann Thomas, Viva, Gastone Rossilli
Titolo originale Midnight Cowboy.
Drammatico,
durata 113' min.
- USA 1969.
Amicizia ed emarginazione dalle strade di New York alla Florida. Joe Bucker approda a New York, dal Texas, convinto di poter fare quattrini a palate grazie alla sua esuberante virilità da mettere a disposizione di donne sole. La realtà del "mestiere" si rivelerà molto diversa e molto più amara. Nella giungla metropolitana, Joe trova un vero amico nel tisico Rico. Nella vana speranza di poterlo guarire, Joe accompagnerà Rico nel suo ultimo viaggio verso la Florida.
John Schlesinger firma un capolavoro "CULT" degli anni 70 una storia "emarginale" che ha fatto epoca. Schlesinger mette in moto una regia attenta e lucida, un meccanismo sociale che diviene coi minuti un moto emozionale .La regia accentua gli "odori", i corpi e le emozioni di due vite ai margini. Ma oltre a Joe e Rico la protagonista principale è lei: New York, la GRANDE MELA "settantina", quella dei Friedkin, dei Serpico e di Travis Bickle. Una citta' che non accoglie, ma respinge, un ventre malato che partorisce disagio e follia. I sobborghi di Schlesinger sono di quelli nudi nella loro veridicita', sgombri dai veti del politicamente corretto e intrisi di nefandezze e amarezze. Joe e Rico si muovono in questo contesto come soggetti schiacciati da una vita pregna di brutture. Schlesinger compie un ottimo lavoro nel dipingere il passato di Joe con un tocco onirico, un trauma amaro ,un tormento della mente di cui il regista ci lascia (sott)intendere una velata atrocita'. Una ferita senz'altro lacerante quella di Joe come l'intero film. Un capolavoro del nichilismo, dove vive il miracolo di un amicizia reale e sincera. La regia rende nel finale una sorta di "regalo" al duo, Joe e Rico escono dal sottobosco, trasportati alla luce del sole della Florida, un ultimo respiro di luce e di vita per Rico. Un finale commovente di un realismo toccante, incarnato alla perfezione dagli interpreti Voight e Hoffman, che ci donano un saggio di bravura nell'arte recitativa all'interno di una New York da marciapiede entrata nel MITO. Resta uno dei più lucidi e spietati ritratti di New York, e nello stesso tempo l'analisi di una amicizia che cerca di riscattare l'uomo dai bassifondi delle sue passioni. Celebre colonna sonora di JOhn Barry. Oscar per il miglior film, la miglior regia e la miglior sceneggiatura.
tres
IL PATRIOTA (Roland Emmerich)
Un film di Roland Emmerich. Con Joely Richardson, Mel Gibson, Chris Cooper, Tchéky Karyo, Heath Ledger, Lisa Brenner, Jason Isaacs, Tom Wilkinson, Donal Logue, Logan Lerman, René Auberjonois
Titolo originale The Patriot. Guerra, durata 165 min. - USA 2000.
Carolina del sud 1776, guerra d'indipendenza americana. Benjamin Martin (Gibson) è un proprietario terriero, vedovo, con sette figli. Si tratta di decidere l'entrata in guerra dello Stato. Ben vorrebbe starne fuori, ma suo figlio maggiore si arruola e per salvarlo dall'impiccagione è costretto a esporsi. Con un'azione degna di Braveheart uccide venti inglesi e diventa una leggenda. A capo di un gruppo di volontari affianca l'esercito regolare e passa di vittoria in vittoria. A questo punto il film si carica di tutti i possibili luoghi comuni dell'azione e non: c'è il nero che ragiona di un mondo nuovo, c'è la bambina che non parlava e che miracolosamente parlerà, c'è il colonnello inglese cattivissimo che assume tutto l'odio di Ben (e dello spettatore) per un adeguato, liberatorio lieto fine, e c'è l'immancabile tappeto musicale di John Williams che tutto enfatizza e blandisce. Insomma non manca nulla del prevedibile, vige un eccesso di spettacolo, però il film è gradevole. E va sempre guardato con simpatia il tentativo di raccontare l'avventura, persino con una pretesa di epica.
tres
LASCIAMI ENTRARE (Tomas Alfredson)
Un film di Tomas Alfredson. Con Kåre Hedebrant, Lina Leandersson, Per Ragnar, Henrik Dahl, Karin Bergquist, Peter Carlberg, Ika Nord, Mikael Rahm, Karl-Robert Lindgren, Anders T. Peedu, Pale Olofsson, Cayetano Ruiz, Patrik Rydmark, Johan Sömnes
Titolo originale Låt den rätte komma in. Horror, durata 114 min. - Svezia 2008. - Bolero uscita venerdì 9 gennaio 2009.
Svezia, 1982. A Blackeberg, un piccolo centro della periferia di Stoccolma, Oskar sogna di vendicarsi del mobbing che subisce ogni giorno da tre compagni di classe. Armato di un coltello immagina di infilarlo nello stomaco di Connie, che dei tre è il più arrogante. Una notte la tranquillità del quartiere in cui vive viene interrotta dall'arrivo di un uomo e di una dodicenne pallida e ambigua che sembra non conoscere freddo e paura. Con l'arrivo dei nuovi inquilini dell'appartamento di fianco al suo, una serie di efferati omicidi iniziano a macchiare il paesaggio innevato e ben presto Oskar scopre che Eli, con la quale nel frattempo ha stretto una tenera amicizia, altri non è che un vampiro imprigionato in eterno in un corpo da bambina.
Il silenzio assordante e l'oscurità del gelido, immacolato inverno svedese con le sue pianure imbiancate offrono lo scenario ideale per il soft horror romantico di Tomas Alfredson. Adattando per il cinema il romanzo semi-autobiografico di John Ajvide Lindqvist (autore anche della sceneggiatura), il regista svedese sceglie di decurtarne alcune parti in favore della candida storia d'amore tra Oskar ed Eli. Lui vorrebbe saltare a piè pari la fanciullezza e conta i mesi e i giorni di un'età troppo fragile per poter affrontare il mondo. Lei, corpo infantile e asessuato, è condannata alle tenebre e a uccidere per rimanere in vita. Costretti alla solitudine per ragioni diverse e vittime di una società silente che li ha abbandonati a se se stessi, i due bambini si confidano e sostengono trovando un modo per comunicare al di là della parola.
La periferia di Stoccolma, ritratta con realismo e puntualità, appare ancora più piccola, monotona e isolata grazie allo sguardo di Alfredson che si rivela abilissimo nel fotografare la provincia attraverso gli usi e i costumi di una manciata di personaggi secondari - alcolizzati nullafacenti, gattari e piccoli bulli - pur tenendo le camere puntate sull'infanzia. Declinando l'horror e scegliendo di non soffermarsi su dettagli sanguinosi (eppure è il sangue che insieme alla storia d'amore offre calore umano al glaciale scenario), Alfredson mostra una delicatezza poco comune al cinema di genere trovando anche nella musica una formula per sottolineare il romanticismo piuttosto che incalzare la suspense. Aperto a innumerevoli chiavi di lettura, Lasciami entrare è un film che rispetta la tradizione orale vampiresca e ridefinisce la figura del vampiro contemporaneo, come già aveva fatto Twilight, lasciando in sospeso un finale vagamente onirico che corre sui binari di un treno lanciato verso il futuro.
tres
ROSSO SANGUE (Leos Carax)
Un film di Leos Carax. Con Michel Piccoli, Juliette Binoche, Hugo Pratt, Serge Reggiani, Denis Lavant, Hans Meyer, Julie Delpy, Carroll Brooks, Mireille Perrier, Jérôme Zucca, Paul Handford, Charles Schmitt, François Nègre, Philippe Fretun, Thomas Peckre, Ralph Brown, Eric Wasberg, Philippe Fretin
Titolo originale Mauvais sang. Drammatico, durata 125' min. - Francia1986
In un tempo non ben definito, e in un luogo che può essere tutti i luoghi, esiste uno strano virus che sta mietendo molte vittime tra chi “fa l’amore senza provare amore”. L’antidoto che servirebbe per scongiurare la catastrofe è di proprietà della Darley Wilkinson ed è custodito all’ultimo piano di un grande grattacielo. Una potente casa farmaceutica commissiona a Marc (Michel Piccoli) e Hans (Hans Mayer) il furto del campione e questi ingaggiano per l’impresa il giovane Alex (Denis Lavant), il figlio di un loro vecchio amico e socio in affare, uno scassinatore assai abile e svelto con le mani. Denis è assai legato sentimentalmente con Lise (Julie Delpy), ma accetta di prendere parte al colpo e la lascia al suo destino. In compagnia dei due uomini ha occasione di conoscere Anna (Juliette Binoche)la giovane compagna di Marc, con la quale ha modo di intrattenere un “casto” rapporto sentimentale oltre l’occasione di scambiarsi punti di vista su quel mistero chiamato amore. Ad essere interessato all’antidoto antivirus non sono i soli, c’è anche l’americana (Carroll Brooks), un’astuta signora che gira sempre in una Limousine nera con scagnozzi al seguito e che con Marca ha un vecchio conto in sospeso.
“Mauvais sang”di Leos Carax è un polar “lunare” con importanti implicazioni nella sfera dei sentimenti, ovvero, un film a tal punto atipico nel panorama della grande tradizione francese nel genere da rendere davvero difficile definire il reale confine tra la rappresentazione classica del rituale criminogeno e l’intenzione del tutto pretestuosa di usare il film per fare una speculazione semiseria sugli insondabili misteri dell’amore.Esite una marcata commistione tra polar e melò, insomma, ma non tanto nel senso che un ingrediente tipico del genere è sempre stata la presenza della fatidica “donna fatale” con le relative implicazioni sentimentali conseguenti, ma perché è proprio vero quanto osservato dall’ottimo Joseba, e cioè, che le due anime del film “sono letteralmente saldate insieme”. Ma su tutto, spicca evidente una profonda venatura fantastica inserita in un quadro d’ambiente intriso di un’atmosfera malinconica e straniante insieme, come se si stesse raccontando una favola per adulti dove l’inevitabile incontro-scontro tra il bene e il male, i buoni e i cattivi, l’altruismo e l’avidità, l’amore e l’odio, viene assorbito in una narrazione che si apre senza indugi alla compenetrazione con un qualcosa che sfugge enigmaticamente alla realtà sensibile. Lo stesso tema portante del film, l’esistenza di un virus che uccide chiunque pratica l’amore senza provare sentimento alcuno, conferisce al tutto il senso di un apologo di natura fantascientifica, con l’approssimarsi di una catastrofe per l’umanità tutta che può essere scongiurata solo dalla “contenuta” eccentricità di un romantico sentimentale. Il senso del tragico che si accompagna alle vicende dei protagonisti, dunque, è mitigato non poco dalla presenza del grottesco che ne permea evidentemente gli intrecci, sensazione questa che si ricava dall’ironia involontaria che spesso scaturisce dai dialoghi come dalla faccia “cartoonesca” di Denis Lavant (paradossalmente chiamato lingua muta quando è un eccellente ventriloquo), nelle facce dei gangster che sembrano mutuate dal mondo dei fumetto (e non a caso spicca la figura di Boris interpretato da Hugo Pratt, il padre di Corto Maltese) come nel caldo torrido che costringe dei criminali in fieri a girovagare a torso nudo per la città. Ad accrescere ulteriormente il sapore straniante di trovarci un mondo altro, è anche il fatto che Leos Carax non fornisce alcuna coordinata spazio temporale, ci si puù trovare in ogni tempo e in nessun luogo , in un futuro chissà quanto prossimo in cui l’inaffettività ha messo solide radici tra i rapporti umani, come in una qualsiasi metropoli smembrata del suo cuore pulsante per esserci restituita nell’unicità “storicizzata” della sua lunare asetticità. L’amore diventa così l’unica molla che tiene ancora in vita chi sa ancora interpretarne i contenuti speculativi, l’unica battaglia che vale ancora la pena di combattere.
Kapu
SCARFACE, LO SFREGIATO (Howard Hawks)
Un film di Howard Hawks, Richard Rosson. Con Paul Muni, Ann Dvorak, Karen Morley, Osgood Perkins, Boris Karloff, George Raft, C. Henry Gordon, Vince Barnett, Purnell Pratt, Tully Marshall, Inez Palange, Edwin Maxwell
Titolo originale Scarface, The Shame of a Nation. Poliziesco, b/n durata 90' min. - USA 1932
Apprendistato, ascesa e morte: la parabola tragica di un capo nel mondo della malavita. Un giovane killer, Tony Camonte, diventa la guardia del corpo di un capo banda. Aiutato da un amico, Rinaldo, si impadronisce del potere. Morbosamente innamorato della sorella, Tony compie però l'errore di uccidere Rinaldo, quando viene a sapere che questi ha sposato la ragazza. La polizia si mette sulle sue tracce per l'omicidio
Film da antologia. La figura del giovane gangster, violento, cinico, amorale, ambizioso si ispira all'immagine giovanile di Al Capone. Ma caratterizzato da una dimensione tragica, che rende il personaggio una sorta di eroe negativo: ambiguità che costrinse i produttori a fare uscire il film con un prologo moralistico. Il film è uno dei capolavori di Hawks e del cinema degli anni '30. Magistrale sceneggiatura di Ben Hecht, ritmo perfetto, celebre il piano-sequenza iniziale. E' decisamente uno dei capolavori del genere gangsteristico, che ha per di più il merito di essere stato tra i primissimi e di esser stato copiato in molti film. Scene e situazioni sono state riprese da molti registi: pensiamo alla sequenza iniziale dal barbiere, o alle sontuose feste dei gangster, o ancora alle sparatorie dalle macchine in corsa. Anche il personaggio stesso del protagonista è un modello per molti film: prepotente, ambizioso, megalomane, capriccioso, vendicativo, spietato, con una curiosa tenerezza per la madre e qui un legame incestuoso con la sorella. Praticamente un pazzo. Sarà proprio la sua megalomania e la sua smania di potere a condurlo alla rovina. Howard Hawks, in modo indovinato, mette in luce anche altri aspetti della personalità del gangster, che danno un giusto completamento alle altre. Se nel crimine e nella vendetta dimostra una diabolica sagacia, per il resto Tony è uno stupido e un semplicione, come mostra la sequenza in cui commenta il dozzinale spettacolo teatrale a cui assiste. In generale, il film è un duro e dichiarato atto di accusa contro il governo statunitense, che non era assolutamente in grado di arginare lo strapotere delle bande criminali dell'epoca.
Kapu
LA RICERCA DELLA FELICITA' (Gabriele Muccino)
Un film di Gabriele Muccino. Con Will Smith, Thandie Newton, Jaden Smith, Cecil Williams, Kurt Fuller, Brian Howe, James Karen, Dan Castellaneta, Takayo Fischer, Kevin West, George Cheung, David Michael Silverman, Domenic Bove, Geoff Callan, Joyful Raven, Scott Klace Titolo originale The Pursuit of Happyness. Drammatico, durata 117 min. - USA 2006. - Medusa uscita venerdì 12 gennaio 2007
Chris Gardner è un brillante venditore senza fortuna nella San Francisco
degli anni '80. Padre affettuoso di Christopher, un vivace bambino di
cinque anni, e marito di una scontrosa compagna, Chris fatica a sbarcare
il lunario. La moglie, incapace di reggere la crisi, abbandona marito e
figlio per cercare fortuna a New York. Rimasto solo Chris cerca
tenacemente e ottiene un posto da stagista non retribuito presso una
società di consulenza finanziaria. Senza stipendio, sfrattato
dall'appartamento e poi dalla stanza di un infimo motel, Chris e il suo
bambino cercheranno di sopravvivere dormendo nei ricoveri per i senza
tetto o nei bagni pubblici della metropolitana. Indossando sempre il suo
abito migliore e l'orgoglio di chi non vuole mollare, Chris troverà una
porzione di felicità.
Gabriele Muccino ricomincia dall'America, lasciando a casa il suo cinema
d'interni, di famiglie borghesi in crisi e di dialoghi urlati,
accelerati e quasi sempre travolti dalla musica. A restare sono invece i
sentimenti, calati questa volta nella realtà americana e rinnovati da
quella stessa realtà. Dietro l'energia della messa in scena e il ritmo
del racconto non ci sono corna, separazioni o crisi adolescenziali, non
ci sono nemmeno yuppie meschini che riscoprono la spontaneità attraverso
la fuga. C'è piuttosto un padre che resta e decide di sognare per sé e
suo figlio, realizzando l'ambizione di desiderare un po' della felicità
del titolo. La sceneggiatura solida procede per accumulo di disgrazie,
sfiancando lo spettatore fino all'happy end "in discesa", che risolve la
vita dei protagonisti e muove alla commozione.
Muccino realizza un film intelligente e finalmente emancipato dal
manierismo sociologico della sua filmografia. Merito da condividere col
divo Will Smith, che doppia il semidivo Accorsi, in una performance
straordinariamente drammatica che riduce e modera la sua maschera
comica. L'altra metà del cielo riconferma (ahimè) il modello femminile
di Muccino, ancora una volta isterico, risentito e mai solidale dentro
un quotidiano che diventa materia del dramma. Ispirato dalla storia vera
di Chris Gardner, Muccino sogna in italiano il sogno (materialista)
americano.
tres
BLOOD STORY (Matt Reeves)
Un film di Matt Reeves. Con Chloe Moretz, Kodi Smit-McPhee, Richard Jenkins, Elias Koteas, Cara Buono, Dylan Minnette, Jimmy 'Jax' Pinchak, Nicolai Dorian, Seth Adkins, Rachel Hroncich, Sasha Barrese, Chris Browning, V.J. Foster, Brett DelBuono, Dylan Kenin, Juliet Lopez, Ashton Moio, Taylor Warden, Rebekah Wiggins, Frank Bond, Deborah L. Mazor, Gregory Leiker, Rowbie Orsatti, Jon Kristian Moore
Titolo originale Let me In. Horror, Ratings: Kids+16, durata 115 min. - USA, Gran Bretagna 2010. - Filmauro uscita venerdì 30 settembre 2011. - VM 14 -
Owen ha 12 anni e vive con la madre in una piccola cittadina del New
Mexico in cui nessuno sceglierebbe di andare a vivere. Torturato da tre
bulli compagni di classe, provato dal divorzio in corso dei genitori,
trova per la prima volta un'amica nella nuova vicina di casa, una
ragazzina strana, che non sente il freddo e non mangia le caramelle. Tra
i due giovani la relazione si stringe, anche e soprattutto dopo che
Owen scopre il segreto di Abby, il suo bisogno di bere sangue per
vivere.
Il remake made in USA del meraviglioso film di Tomas Alfredson faceva
molta paura nelle intenzioni ma, seppur forse più sanguinolento,
rassicura anche gli animi più ansiosi. Il romanzo di John Ajvide
Lindqvis torna dunque sullo schermo grazie al regista di Cloverfiled,
Matt Reeves, senza che il ricordo del primo film venga alterato. Siamo
qui in presenza di un doppio, che della tragica inquietudine
dell'originale ritrova tanto il senso quanto il sentimento, ma che
avvicina questa storia nera ambientata nella neve bianca al pubblico
americano, offrendogli maggiori appigli. La ricontestualizzazione negli
Stati Uniti dell'era Reagan -una presidenza nata dal malessere (specie
economico) avvertito dal paese e tutta improntata alla difesa dalla
minaccia esterna- ma anche la collocazione calzante tra il genere del
teen movie scolastico e l'horror più esplicito, fanno di Let me in un'opera meno aliena e lontana di Let the right one in
per la platea a stelle e strisce. Fermo restando il primato del film
Alfredson, tanto in senso anagrafico quanto emozionale. Il senso di
isolamento e di inguaribile solitudine che nel film svedese abbracciava
non solo i protagonisti ma la comunità tutta, il condominio, il
circondario, le foreste, qui si stringe attorno a Owen, alla sua
famiglia disintegrata e alla sua esclusione sociale, disegnando un
percorso meno esistenziale e più individuale, anch'esso più in linea con
i modi della narrazione cinematografica americana. Ciò che viene
smussato, inoltre, è la sottile indeterminazione sessuale, per cui
l'Oskar del film svedese aveva una bellezza diafana quasi femminile
mentre Eli era più scura, forte, selvatica. La scelta di Kodi
Smit-McPhee e Chloe Moretz ristabilisce frontiere di genere più marcate,
dando maggior peso all'apparenza di angelo condannato del personaggio
femminile Reeves ha per la seconda volta l'opportunità di lavorare su una
situazione di non ritorno e di mitigare il tragico con l'azione ma
soprattutto, in questo caso, con sentimenti ben più profondi. Ciò
nonostante, resta chiaro che non è certamente un'esigenza artistica ad
aver portato alla realizzazione di questo remake quanto piuttosto una
scelta produttiva e di mercato. È un ottimo remake, ma arriva
giustamente secondo.
LA STRADA SCARLATTA (Fritz Lang)
Un film di Fritz Lang. Con Margaret Lindsay, Edward G. Robinson, Dan Duryea, Joan Bennett Titolo originale Scarlet Street. Drammatico, Ratings: Kids+13, b/n durata 103' min. - USA 1945.
Un integerrimo impiegato di banca che ha già trascorso venticinque anni dietro lo sportello, si innamora perdutamente di una prostituta. La ragazza sfrutta la situazione e induce l'amante a commettere azioni che altrimenti non avrebbe mai compiuto. Per lei l'uomo manda a monte una precedente relazione e si offre di sposarla, ma al rifiuto...
Affascinante. Una parabola che trascende la tenebra e la desolazione. Un uomo nasce solo, e muore solo. L'unica cosa che gli farà compagnia sarà la sua coscienza. Il male lo avvolgerà, se tradirà se stesso, o la luce lo illuminerà se darà a se stesso la bellezza. L'arte non deve mai essere sacrificata per beni materiali, in quanto l'arte è immortale e infinita. Se si limita il genio alla quantità di pecunia, si rischierà di degradare la fiamma che Dio ha donato agli uomini: l'Amore. L'arte è amore, e se la si coltiva, lei cresce e mentre lei cresce, costruisce e d edifica sia la nostra mente che la nostra anima. L'arte è il nutrimento della nostra anima, e se per lei ci sacrificheremo, allora da lei avremo gratitudine. La bontà è una gran virtù, ma bontà senza intelligenza rischia di diventare mera idiozia. Lo stesso vale per l'intelligenza, se ad essa traspare l'amore e la bontà, allora subiremo le conseguenze di aver sbagliato modo di agire, a causa di scorrette riflessioni. La mente senza il cuore è un cielo senza il sole, la luna e le stelle, vuoto, inutile, nero. Il bianco è l'unione di tutti i colori, ma il nero è la mancanza di colore. Se non coloreremo la nostra vita con l'amore, avremo il buio più totale; sia al momento di andare a dormire, che al risveglio. Così, ciclicamente ed eternamente. Lang da spazio alla sua visione pessimistica della vita e della natura umana, lo fa con la sua classe assoluta; lavorando bene sui personaggi, sulla trama, sulle dinamiche. Come sempre riesce a far convergere le storie e gli episodi verso un finale armonico e soddisfacente ma il segnale che manda allo spettatore stavolta è amaro e tenero allo stesso tempo mentre in sottofondo il senso di giustizia prevale su tutto.
tres
LA DONNA DEL RITRATTO (Fritz Lang)
Un film di Fritz Lang. Con Edward G. Robinson, Dan Duryea, Joan Bennett Titolo originale The Woman in the Window. Giallo, b/n durata 99 min. - USA 1944
Un docente di criminologia cena presso il suo club. Ha ammirato in una vetrina un quadro raffigurante una bellissima donna e questa - di cui nulla conosce - entra in un suo sogno, dapprima piacevole (la loro relazione sentimentale), ma che si trasforma poi in un autentico incubo.
Dal racconto di J.H.Wallis, Once Off Guard, The Woman in the Window appartiene a quella serie giallo/thriller a cui Lang si dedicò negli anni quaranta, creando autentici capolavori del genere noir. Prima di trasferirsi in Germania e poi negli Stati Uniti in fuga dal nazismo, Lang aveva respirato l’aria della Vienna d’inizio secolo, sopravvissuta alle macerie dell’impero absburgico, città che fu in quegli anni il vero “laboratorio sperimentale della fine del mondo”, secondo la celebre definizione di Karl Kraus. Della cultura viennese fra ottocento e novecento Freud era stata la personalità più rappresentativa e importante e Schnitzler aveva pubblicato nel ’26 la sua Traumnovelle, la novella del sogno, che rivela quanto di noi venga pietosamente e opportunamente sepolto nel profondo Lete, fiume dell’oblio del nostro inconscio, per esplodere poi nella valvola del sogno. Tempo reale e tempo virtuale, realtà e immaginazione, il volto e il suo doppio, si propongono nel film come temi di riflessione inesauribile, oggetto di narrazione composta e densa, costruita con montaggio sobrio, meticoloso e sapiente. La finzione è magistralmente orchestrata fino al margine estremo, il confine tra sogno e realtà non verrà colto se non quando il regista/demiurgo deciderà che ciò debba avvenire, al novantunesimo minuto. Va sottolineato che la "chiave" onirica è tutta di Fritz Lang... (farina del suo sacco, e l'intuizione è straordinaria) poichè il racconto "rappresentava" la storia con oggettivo realismo, tanto che si concludeva con un suicidio... Lang, esule forzato in America, non ha mai dimenticato le sue radici mitteleuropee, tanto che il suo speciale tocco è riconoscibilissimo e continautivo: cambiano a volte le modalità ma il filo conduttorre di tutta la sua operaq, sempre presente anche nei titoli minori, non si interrompe mai, nemmeno con il trasferimento oltre oceano... la matrice espressionista è avvertibilissima, come pure l'utilizzo di uno strepitoso Edward G: Robinson (se il film fosse stato girato in Germania, poteva essere un personaggio "perfetto" per Emil Janning.) Anche in questo "capolavoro" del noir, il tema centrale è in fondo il sottile confine fra innocenza e delitto quasi a voler significare che ogni uomo è un potenziale colpevole.: c'è ed è palese in "M" nel "Dottor Mabuse" e attraversa praticamente tutta l'opera americana del regista, non solo i film più riusciti e potenti, ma anche le opere (si fa per dire) "minori”, persino i suoi western (è la violenza della realtà a renderci ugualmente ingiusti e a volte persino crudeli)... o addirittura lo stevensoniano viaggio alla scoperta del mondo degli adullti, dove persino l'innocenza infantile viene disegnata come "ignoranza della realtà e vuota illusione". Un paradigma esasperato di tutto questo (il continuo cangiare della realta, quel niente è davvero ciò che sembra, i ribaltamenti della visiione e della percezione delle cose) è riscontrabile in un titolo che non è fra i più celebrati: "Prigioniero del terrore
tres
LA FEBBRE (Alessandro D'Alatri)
Un film di Alessandro D'Alatri. Con Fabio Volo, Valeria Solarino, Arnoldo Foà, Julie Depardieu, Cochi Ponzoni, Vittorio Franceschi, Massimo Bagliani, Thomas Trabacchi, Lucilla Agosti,Silvano Agosti, Gisella Burinato, Stefano Chiodaroli, Alessandro Garbin, Gianluca Gobbi, Paolo Jannacci
Le disillusioni di un giovane nella sbalestrata Italia di oggi. Mario Bettini, geometra di provincia, è un trentenne pieno di idee e di entusiasmo. Il suo sogno è quello di aprire un locale con gli amici, ma quando viene inaspettatamente assunto dal Comune capisce che il nuovo impiego contrasta con il suo spirito imprenditoriale. Sarà l'incontro con una ragazza a fargli intravedere nuove prospettive esistenziali...
La febbre è una commedia arguta e simpatetica sugli italiani. Sui mediocri per vocazione, povertà di spirito, dabbenaggine e furbizia di basso profilo e sugli onesti, sui sinceri, su chi non crede che vivere affidandosi alla fantasia, all’entusiasmo, al rispetto delle regole e degli altri sia un valore devitalizzato e superato. È una commedia agrodolce su un mondo che non ha rispetto dei morti e della propria memoria (scegliere come uno dei punti focali del racconto e della messa in scena un cimitero comportava moltissime insidie, aggirate e superate in modo intelligente e brillante). È la piccola, garbata, amara, perspicace sinfonia di una bella città di provincia, Cremona (l’Italia, per fortuna, anche quando si imbelletta da metropoli conserva nel reticolo architettonico e antropologico dei quartieri le forme familiari e gli odori forti di un’immensa provincia). È la storia di un disincanto, di una momentanea sconfitta e di un mettersi sulle linee laterali di un campo di gioco (sociale, economico e politico) del quale non si condividono né l’interpretazione dei regolamenti né le decisioni arbitrali. È un apologo lucido e divertente sul desiderio, legittimo, di autosospendersi dalla Repubblica e di rinunciare, per protesta, ai diritti-doveri della cittadinanza. Alessandro D’Alatri ha diretto e scritto un film che ha la piacevolezza, le malinconie, le asprezze sorridenti, il calore della classica commedia all’italiana. In un film in cui uomini e donne (gli interpreti sono bravi, alcuni bravissimi, e Valeria Solarino unisce alle doti d’attrice un’eccezionale presenza magnetica) stentano a trovare la porta di entrata e di uscita da una realtà che continua a trasformare,a temperare le punte più aguzze e irregolari, a sedare, a imbrigliare. Mario Bettini (un bel nome da uomo qualunque, ma non qualunquista o in vendita, interpretato da un ottimo Fabio Volo che, a differenza di molti altri attori deportati dalla Tv ha lasciato negli studi televisivi il suo repertorio) è un giovane geometra che coltiva con alcuni amici l’idea di aprire un locale e, mentre procedono i lavori di allestimento dello spazio preso in affitto, un concorso sostenuto anni prima gli regalano un’assunzione (un dono che nell’era selvaggia del precariato e della flessibilità fa pensare a un’Italia da coniugare al trapassato remoto) come impiegato del Comune. Lì trova un esemplare, molto diffuso, di stupidissimo mortificatore sociale. Un imbecille di burocratico successo che si accanirà contro la sua volontà di lavorare per il bene di tutti e contro il suo talento per la vita.
tres
SEI DONNE PER L'ASSASSINO (Mario Bava)
Un film di Mario Bava. Con Cameron Mitchell, Eva Bartok, Thomas Reiner, Luciano Pigozzi, Enzo Cerusico, Harriet White, Franco Ressel, Massimo Righi, Claude Dantes, Heidi Stroh
Omicidi strazianti tra le modelle di un atelier. Nel parco dell'atelier Christian, Isabelle, una bellissima modella, viene strangolata da un assassino mascherato. L'ispettore Silvestri, incaricato delle indagini, presto si accorge di quanto sia avvelenato il clima nella casa di moda. Scopre che Isabella era amante di un antiquario, e che a aveva scritto un diario compromettente per tutti gli impiegati dell'atelier. Nicole, amica della morta, ha nascosto il diario, ma l'assassino la uccide. Altri delitti raccapriccianti si susseguono.
Un classico del thriller all'italiana, il capostipite del genere. La sceneggiatura può semprare incoerente, ma Bava si dimostra ancora una volta un "pittore dell'inquadratura", e sceglie tavolozze cromatiche antinaturalistiche e violente. Il film, in questo senso, è un capolavoro visionario. Le soggettive dell'omicida, le esecuzioni e l'inquietante atmosfera influenzeranno Dario Argento, specie per i suoi primi film. Mario Bava collabora alla sceneggiatura del film, lascia la direzione della fotografia a Ubaldo Terzaro, ma la sua influenza è palpabile in ogni inquadratura, fin dai titoli di testa, davvero innovativi, dove vengono presentati tutti i personaggi della storia (che sono un po' troppi effettivamente), con un gioco di luci inquietanti, che preannunciano l'atmosfera di tutto il film. Le scene sono costruite come dei dipinti, come delle tavolozze per dei fumetti, la storia si potrebbe seguire tranquillamente tramite le figure, le parole appaiono quasi di troppo, se non inappropriate, un film sonoro che potrebbe essere muto, da quanto è fatto bene, non c'è bisogno di spiegazioni, di antefatti, di tante parole per spiegare chi sta ammazzando e perché. E' un giallo teso e ben girato, del genere dell'assassinio seriale che uccide senza che nessuno riesca a scoprirlo e fermarlo. Il film ha una trama ben congeniata e il regista confonde con abilità i sospetti dello spettatore; alle volte si diverte anche a confondere le attese con opportuni accorgimenti di montaggio.
tres
SOTTO IL SOLE DI SATANA (Maurice Pialat)
Un film di Maurice Pialat. Con Sandrine Bonnaire, Gérard Depardieu Titolo originale Sous le soleil de Satan. Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 113' min. - Francia 1987
Donissan è un giovane prete che si definisce “ignorante, rozzo e incapace di farsi amare”. Confessa i suoi tormenti e il suo sentirsi inadeguato al vicario Menon-Segrais, “al seminario ero un allievo mediocre, c’è voluto un miracolo per farmi ammettere al diaconato…”. Indossa il cilicio e si sottopone a punizioni corporali, l’abate lo invita a raggiungere un padre confessore che potrà essergli da aiuto. Germaine detta Mouchette è una ragazza ambiziosa e spregiudicata, amante di Cadignan, un marchese in disgrazia, lo uccide con un colpo di fucile. Al medico e politico Gallet, altro suo amante sposato con due figli dice di essere incinta e di aver ucciso Cadignan mentre tutti credono sia stato un suicidio. Lui le risponde:”La tua storia sembra un sogno…”. Intanto Domissan in campagna fa uno strano incontro, un uomo gli si affianca dapprima soccorrendolo e facendoli accorciare la strada, poi sfruttando la sua debolezza lo bacia e lo insidia, è Satana. “Cervello di fango, cane accucciato, bestia sottomessa” gli dice, ma il prete lo scaccia, si addormenta e l’indomani riprende il camino. In un sentiero incontra Mouchette, legge la sua anima, sa tutto di lei, nell’affrontarla ritrova forza e vigore. Rientrata a casa Germaine si suicida, Domissan giunto in ritardo porta il suo corpo all’altare nel tentativo di donarla a Dio. Rimproverato per questo scandaloso gesto, viene inviato in un luogo appartato per un periodo di prova e solitudine morale. Qui comincia ad essere amato e riconosciuto, compie un miracolo e trova la liberazione dai conflitti interiori in un confessionale con gli occhi rivolti al cielo.
Da un romanzo di Georges Bernanos, uno dei migliori film di Pialat; un confronto intenso e possente col mondo dello scrittore, ssenza nulla concedere al pubblico (che infatti lo fischiò alla premiazione). Straordinari gli interpreti, inevitabile il confronto con "Ordet" nella scena del miracolo. Cerebrale e antipopolare la pellicola di Maurice Pialat (anche attore nei panni di Menon-Segrais) si lascia guardare con interesse per vari motivi. Tratto dall’omonimo libro di Bernanos presenta, attraverso le figure principalmente di Domissan e Mouchette, la rappresentazione del bene e del male. Se il romanzo ha una forte connotazione cristiana con annesse riflessioni sull’esistenza del male e messaggi di amore verso il prossimo tra gli altri, Sotto Il Sole Di Satana film è più distaccato, quasi laico, suggestivo e austero nelle tematiche espresse, nella componente scenografica e nei caratteri dei protagonisti. I dialoghi talvolta sono criptici e verbosi o troppo lunghi (soprattutto nella prima parte). Ciò che affascinano e appaiono riusciti sono la visione metafisica di bene e male, fede, superstizione e misticismo. “La superstizione è una negazione dell’intelligenza”. L’interpretazione a dir poco fantastica e sofferta di Gerard Depardieu è inscindibile dal giudizio complessivo dell’opera.
tres
THE WAY BACK (Peter Weir)
Un film di Peter Weir. Con Dragos Bucur, Colin Farrell, Ed Harris, Alexandru Potocean, Saoirse Ronan, Gustaf Skarsgård, Mark Strong, Jim Sturgess, Sebastian Urzendowsky, Hal Yamanouchi, Zahary Baharov, Bhawani Singh, Stefan Shterev, Dejan Angelov, Meglena Karalambova, Irinei Konstantinov, An-Zung Le, Nikolay Mutafchiev, Stanislav Pishtalov, Sally Edwards,Valentin Ganev, Igor Gnezdilov, Mariy Grigorov
Drammatico, durata 133 min. - USA 2010.
La storia di tre uomini che nel 1941 realizzarono un'impresa epica, raggiungendo l'India dopo essere scappati da un gulag siberiano e dopo aver percorso a piedi, senza alcun sostegno, ben 6500 chilometri, in condizioni estreme. In realtà però il gruppo era ben più numeroso. Sotto la guida di Janusz (Jim Sturgess), un polacco condannato sulla base di confessioni estorte alla moglie sotto tortura, erano in tutto sette gli uomini fuggiti, ai quali si aggiunse poi una ragazza nel corso del viaggio. Ma le condizioni estreme della fuga - il caldo dei deserti, la mancanza di cibo e di acqua, l'attraversamento della catena himalayana - fecero poi sì che il gruppo venisse decimato, portando anche alla necessità di confrontarsi con decisioni durissime.
Ispirandosi al romanzo The Long Walk: The True Story of a Trek to Freedom di Slavomir Rawicz, Peter Weir affronta in The Way Back una storia in cui si intrecciano due differenti percorsi narrativi: da un lato il racconto carcerario e, dall'altro, l'odissea per la sopravvivenza di un gruppo di personaggi che, per 12 mesi e in un viaggio di oltre 6500 chilometri, si ritrovano a rivedere i propri comportamenti e le loro scelte in base alle rigide circostanze affrontate.L'adattamento del libro, scritto nel 1956, era stato già opzionato dalla Warner per farne un film, prima con Laurence Harvey e poi con Burt Lancaster, finendo poi definitivamente nel dimenticatoio. La scelta di Weir di riportare in auge il progetto è stata invece dettata dalla volontà di raccontare gli orrori dello stalinismo, riflettendo sulle misure di un crimine contro l'umanità di cui difficilmente si parla. Nonostante siano stati avanzati dei dubbi sul reale percorso affrontato (secondo fonti storiche, è più probabile che dalla Siberia abbia raggiunto l'Iran e non la Mongolia, come fecero la gran parte dei polacchi arrestati in modo da poter ripartire poi con più facilità verso la loro madre patria), non vi è alcuna ombra sui crimini narrati e sull'efferatezza con la quale ebbero luogo. L'autoresistenza richiesta all'interno del gulag si traduce, per i protagonisti, in dipendenza reciproca durante la fuga, quando tutti per istinto di sopravvivenza sono costretti a rompere il proprio muro di solitudine e cominciare a dipendere l'uno dalle azioni dell' altro. Come già fatto in Master & Commander. Sfida ai confini del mare (2003), The Truman Show (1998), Fearless. Senza paura (1993) e Gli anni spezzati (1981), Weir mette pertanto ancora una volta la natura umana sotto il microscopio della coercizione, raccontando le capacità di resistenza di persone comuni che, sottoposte a eventi e contesti di natura eccezionale, si confrontano prima di tutto con loro stessi e con le loro possibilità, anche in maniera estrema e serrata. Con una narrazione che inizia nei pressi di un gulag per poi spostarsi nelle foreste gelate della Siberia, nelle vaste pianure della Mongolia e nel tormento cocente del deserto del Gobi, i protagonisti, oltre a lottare gli uni contro gli altri, combattono anche contro gli elementi di una natura a loro matrigna e ostile.
tres
PIANO 17 (Antonio Manetti, Marco Manetti)
Un film di Antonio Manetti, Marco Manetti. Con Massimo Ghini, Enrico Silvestrin, Giampaolo Morelli, Elisabetta Rocchetti, Giuseppe Soleri, Antonio Iuorio, Valerio Mastandrea
Commedia nera, durata 105 min. - Italia 2005. uscita venerdì 3 marzo 2006
I Manetti Bros confermano la loro devozione alla purezza di genere, che con Piano 17 si coniuga felicemente in semplicità, freschezza ed efficacia. Un thriller in piena regola, dunque, o meglio un noir con protagonista una banda di rapinatori in un momento di difficile passaggio di consegne tra Matteo, il capo, e i suoi secondi: suo fratello il Mancini, Luca detto "Pittana" e il grasso Borgia.
Uno strano colpo è tutto sulle spalle di Mancini che deve intrufolarsi nell'ufficio di un dirigente, all'ultimo piano di un palazzo direzionale, per distruggere dei documenti. Mentre sale al piano 17 travestito da uomo delle pulizie, si uniscono a lui nell'ascensore Violetta, bella e spregiudicata segretaria del dirigente, e un giovanotto timido e imbranato, segretamente innamorato di lei. I piani dei tre per la serata rischiano di saltare a causa di un blocco dell'ascensore e, peggio, loro stessi si apprestano a saltare letteralmente in aria: Mancini infatti ha con sé una bomba innescata che esploderà entro un'ora e mezza.
Il film si svolge praticamente in tempo reale, poco ma sufficiente per sbrogliare l'intricata matassa che lega tra loro i destini dei protagonisti dentro e fuori l'ascensore. Scopriamo gli antefatti, fondamentali per comprendere cosa sta accadendo, in una sequela di lunghi flashback che ricostruiscono una trama pulita e ben orchestrata, dove niente è superfluo e dove non c'è spazio per elucubrazioni pseudo-filosofiche sul karma del gangster, vizio tanto in voga nel noir contemporaneo. C'è solo da sedersi e godersi il racconto con Piano 17, magari imitando il gesto dell'anti-eroe Mancini: perché certe cose si fanno come si deve solo masticando un chewing-gum.
tres
TUTTI GIU' PER TERRA (Davide Ferrario)
Un film di Davide Ferrario. Con Valerio Mastandrea, Carlo Monni, Adriana Rinaldi, Caterina Caselli, Benedetta Mazzini, Anita Caprioli, Luciana Littizzetto, Francesca Vettori, Tommaso Ragno, Alessandro Partexano, Tina Venturi, Giovanni Lindo Ferretti, Gianluca Gobbi, Vladimir Luxuria, Roberto Accornero, Alessandra Casella, Laura Saraceni, Raffaele Vannoli, Elisabetta Cavallotti, Sergio Troiano
Commedia, Ratings: Kids+16, durata 85' min. - Italia 1997.
Rientrato in famiglia a Torino, il ventiduenne Walter Verra, figlio di un operaio, disoccupato, obiettore di coscienza, iscritto alla facoltà di filosofia per inerzia, vergine un po' per scelta e un po' per pigrizia, concupito dalle donne, vive alla giornata in una Torino multirazziale finché la morte di un'amatissima zia e l'incontro con una giovane gitana lo fanno passare all'età adulta. Forse. Da un romanzo (1994) di Giuseppe Culicchia una commedia acida, romantica e vitale che conta come ritratto di un personaggio (specifico più che tipico) più che come spaccato sociologico: "rivela un ritmo studiatissimo, ma frenetico ... sorprende per questa sua generosità di riprese" (L. Pellizzari). Ha in Mastandrea un decontratto interprete del malessere generazionale e una colorita galleria di figure tra cui spicca una ritrovata C. Caselli come zia alternativa. Prodotto dal valente Gianfranco Piccioli. Dedicato a Lindsay Anderson. Sottovalutato da molta critica trovò il suo pubblico e 2 premi.AUTORE LETTERARIO: Giuseppe Culicchia.
tres
RUGGINE (Daniele Gaglianone)
Un film di Daniele Gaglianone. Con Filippo Timi, Stefano Accorsi, Valerio Mastandrea, Valeria Solarino, Giampaolo Stella, Giuseppe Furlò, Giulia Coccellato, Giacomo Del Fiacco, Leonardo Del Fiacco, Annamaria Esposito, Alessia Di Domenica, Giulia Geraci, Michele De Virgilio, Anita Kravos, Giuseppe Vitale, Cristina Mantis
Drammatico, durata 109 min. - Italia 2011. - Fandango uscita venerdì 2 settembre 2011.
Nord Italia. Fine anni Settanta. Estate. Alla periferia di una città in un quartiere abitato da immigrati del sud e e del nord est un gruppo di ragazzini, capitanati dal siciliano Carmine ha costituito come proprio dominio il Castello, due vecchi silos arrugginiti. Nel quartiere giunge un nuovo medico condotto, il dottor Boldrini. Il suo atteggiamento aristocratico intimorisce un po' gli abitanti i quali lo temono e lo ammirano al contempo. I bambini scopriranno un suo terribile segreto ma avranno timore di non essere creduti nel momento in cui dovessero raccontarlo agli adulti. Oggi Carmine, Sandro e Cinzia sono tre adulti su cui quel passato ha lasciato dei segni profondi.
Daniele Gaglianone prosegue il suo percorso caratterizzato dal rifuggere dal facile successo e dall'indagine su quanto accade quando la violenza, esplicita o celata che sia, irrompe nelle vite delle persone imprimendovi il suo marchio indelebile. Lo fa con uno stile visivo complesso che interrompe l'impressione di realtà grazie a sfocature o a neri improvvisi che costringono lo spettatore a staccarsi dall'azione per concedersi un, seppure breve, spazio di riflessione. Se si vuole trovare un difetto a Ruggine lo si può individuare nell'ampio tempo che si concede prima di entrare in situazione ma forse anche questo, nell'ottica d'insieme, finisce con il divenire funzionale. Perché Gaglianone chiede disponibilità allo spettatore. Una disponibilità anche a farsi bambino e quindi a comprendere che la caratterizzazione di un sempre più raffinato Filippo Timi nel ruolo del dottor Boldrini 'deve' essere esasperata. Per quei bambini di un'epoca in cui l'immaginario collettivo non era ancora stato pervaso da miliardi di stimoli visivi quotidiani, il dottore è un Uomo Nero delle fiabe. É quel drago che un Sandro divenuto padre materializzerà sotto forma di gioco con il figlio, che Carmine continuerà a cercare di uccidere dentro di sé e che Cinzia proverà a combattere, consapevole che ha assunto forme diverse. Magari quelle di due colleghi del Consiglio di classe in sede di scrutinio incapaci di leggere le difficoltà di un'alunna forse abusata in famiglia ma vista invece con lo sguardo malato di una società che si ferma all'aspetto fisico e si ritrova succube di pulsioni inconfessate che pubblicamente deplora. Un suggerimento: non lasciate la sala appena iniziano i titoli di coda. La ruggine non ha ancora smesso di corrodere lo schermo e l'animo dei protagonisti.
tres
MADAME BOVARY (Claude Chabrol)
Un film di Claude Chabrol. Con Isabelle Huppert, Lucas Belvaux, Jean-François Balmer, Christophe Malavoy, Jean Janne Drammatico, durata 140' min. - Francia 1991
Emma Bovary, sposata troppo presto a un medico di provincia, sogna ben altri orizzonti. Dopo essere stata sedotta e abbandonata dal libertino Rodolphe, si trova un altro amante in Léon. Quando, rovinata dai debiti, cerca l'aiuto finanziario di Rodolphe, senza trovarlo, decide di suicidarsi con l'arsenico.
L'aspetto del romanzo di Flaubert che ha interessato Chabrol è senza dubbio quello dato dal sottotitolo "Costumi di provincia". L'approccio è letterario quanto si vuole, ma la cattiveria di Chabrol sulla vita e l'ambiente soffocanti della provincia è esplicita. Crediamo che nell’accostarsi a questo adattamento cinematografico dell’opera di Flaubert sia opportuno mettere da parte il proprio giudizio sul romanzo. Per quanto desideroso di restargli fedele, Claude Chabrol realizza un’opera molto personale, è costretto ad abbreviare la vicenda e non perde l’occasione di graffiare ancora una volta il moralismo e l’ipocrisia di una certa borghesia provinciale, a qualsiasi epoca appartenga. Il film è innanzi tutto il felice risultato della fertile alchimia creatasi tra il regista e la sua più convincente interprete. Dopo “Violette Nozière” (1978) e “Une affaire de femmes” (1988), Chabrol comprende di aver finalmente trovato l’interprete ideale per il personaggio di Madame Bovary, un progetto che cova fin dall’inizio della sua carriera. Isabelle Huppert si rivela effettivamente perfetta nell’incarnare la figura di una donna ambiziosa ed egocentrica, che accetta il matrimonio solo per evadere da una vita monotona quanto inutile, che si lascia andare solo per noia ad una relazione senza futuro, che mendica affetto da chiunque, anche a costo di precipitare nella rovina se stessa e la sua famiglia. Corinne Jorry ottiene la nomination per i costumi alla cerimonia degli Oscar del 1992. Nel corso del film, la protagonista e l’intero cast indossano effettivamente abiti sufficienti per tre o quattro sfilate di moda. “Madame Bovary” sarà evocato dalla stessa Isabelle Huppert nel corso della cerimonia funebre per la morte di Claude Chabrol, il 17 settembre 2010: “(...) Mia madre morì nel corso delle riprese e, in questa prova, Claude mi accompagnò con molta delicatezza, lasciando che le dedicassi il film. Fu una vera prova d’amore. (...) Claude pronunciò questa frase, misteriosa e brutale: «non bisogna consentire a ciò che è morto di rosicchiare ciò che è vivo». Non l’ho mai dimenticata e, oggi, voglio rivolgermi ai vivi” (traduzione da “Claude Chabrol par lui-même”, Stock éditeur, 2011).
tres
UN AFFARE DI DONNE (Claude Chabrol)
Un film di Claude Chabrol. Con Isabelle Huppert, François Cluzet, Marie Trintignant Titolo originale Une affaire de femmes. Drammatico, durata 105' min. - Francia 1988.
Per sopravvivere nella Francia di Vichy una "vedova bianca" diventa l'angelo della morte. Marie Latour vorrebbe per sè e per i suoi due bambini una vita meno stentata di quella a cui è costretta nella Francia occupata dai tedeschi e con il marito prigioniero in Germania. Così comincia a praticare aborti e affitta stanze a prostitute. Denunciata dal marito, al suo ritorno, verrà...
Chabrol riprende questa storia con "Un affare di Donne"(tratto da un romanzo di Francis Szpiner) che diventa uno strepitoso affresco della Francia occupata e un modo per riflettere sull'ipocrisia che alberga nei meccanismi del potere costituito. E' in fondo un dramma sull'ignoranza e la povertà di una donna che sogna di fare la cantante e finisce quasi per caso a praticare aborti, a scoprire i vataggi economici di questa attività e quindi la possibilità di affrancarsi da una vita di stenti. Chabrol non cede al facile sentimentalismo e la natura cinica di Marie ci viene restituita in tutta la sua pregnanza. Più che la pratica abortista o il fatto di lucrare sulle prestazioni dell'amica prostituta, cose che troverebbero una loro ragion d'essere nell'oceano di atrocità che si compivano in quel periodo, ciò che induce da subito a nutrire un sentimento di antipatia per Marie è il suo egoismo individualista, il suo freddo egocentrismo, il senso di disamore per quello che non gli riguarda. Dimentica di tutto l'orrore che gli gira intorno, si gode la sua raggiunta agiatezza con la baldanza di chi crede di essere nel giusto, di chi pretende che gli venga riconosciuto il posto al sole che si è guadagnato. Marie sale sul carro dei vincitori persuasa di autoassolversi in quell'ingranaggio di morte molto più grande e diventa suo malgrado la coscienza sporca di un paese che,"diventato un gigantesco porcile"(come dice il suo avvocato difensore), per viltà la immola sull'altare della sua restaurazione morale. Film come Un affare di donne andrebbero fatti vedere obbligatoriamente a tutti coloro che, ancora oggi, si oppongono all’aborto legalizzato, dimenticando che in un passato per niente remoto abortire per una donna significava rischiare la propria vita ed incappare in cinici sfruttatori. Grande film che alla maniera di Chabrol sa frugare tra le pieghe più oscure dell'animo umano e dare il meritato risalto all'istrionismo del volto e del corpo dell'immensa Isabelle Huppert. Uno dei migliori Chabrol, si avvale di un'ottima sceneggiatura del regista e di Colo Tavernier
Kapu
LES BICHES-LE CERBIATTE (Claude Chabrol)
Un film di Claude Chabrol. Con Jean-Louis Trintignant, Stéphane Audran, Jacqueline Sassard Drammatico, durata 97' min. - Francia 1968
In seguito a un incontro casuale nasce una morbosa amicizia tra la giovane Why, che si guadagna da vivere dipingendo cerbiatte sui marciapiedi di Parigi, e Frederique ricca e annoiata proprietaria di un cantiere navale. Sua ospite in una splendida villa a Saint Tropez, Why conosce Paul, un architetto del quale si innamora. Frederique, gelosa della nuova conquista della sua amica, riesce a diventare l'amante di Paul. Why però la prende nel migliore dei modi accettando serenamente di amare tutti e due.
Nel triangolo chabroliano stavolta è l'uomo ad avere la peggio: Trintignant sembra quasi non avere neppure gusti, accontentarsi dell'una o dell'altra amante senza fare differenze o preferenze, e soprattutto essere la vera vittima del rapporto a tre. Bizzarre le due macchiette comiche, gli amici nella villa di Saint Tropez, ironiche voci della coscienza che tentano di sdrammatizzare la situazione e finiscono inevitabilmente per essere defenestrati senza tanti complimenti. Il film è coraggioso, ma vive di pochi spunti e nemmeno tanto originali, vedi il finale con delitto. Les biches andrebbe letto senza spaziatura fra le due parole. Film che fece scandalo all'epoca, e che mise nel piatto ufficialmente la presenza lesbo nel cinema, insieme ad un altro film inglese come La Volpe. Chabrol descrive la storia con molta precisione e sensualità, a cui partecipano con vera partecipazione le due protagoniste, che riempiono l'atmosfera di un erotismo efficace. C'e' poco da fare, Chabrol rimane per sempre un regista che e' una garanzia di qualita' nella visione dei suoi film. Anche questo scava nei personaggi con un equilibrio perfetto. Nel gioco delle interpretazioni a cui volentieri si prestano i films di Chabrol, questo é un tassello notevole. Moderno nel drappeggio dei personaggi femminili, dalla sessualità incerta ed opportunista, Le Cerbiatte affascina e seduce, spiazzando lo spettatore come fosse un candido Trintignant qualunque. Da non scordare le scene di apertura e chiusura, dove le situazioni si ribaltano, e il cerchio si chiude: la folle Sassard è vestita col cappotto che la signora indossava quando la conobbe, seducendola con una banconota di grosso taglio. Audran meravigliosa, regia rigorosa
Kapu.
LA COMMEDIA DEL POTERE (Claude Chabrol)
Un film di Claude Chabrol. Con Isabelle Huppert, François Berléand, Patrick Bruel, Robin Renucci, Marilyne Canto, Thomas Chabrol Titolo originale L'ivresse du pouvoir. Drammatico,durata 110 min. - Francia 2006
Chabrol racconta con sguardo cinico e caricaturale i legami fra giustizia e intrighi economici e politici. Jeanne Charmant Killmann (e il nome non sembra certo un caso) è un integerrimo pubblico ministero che indaga su un complicato caso di corruzione che coinvolge, a più livelli, i piani alti dell’industria e della politica francese e che finirà per travolgere lei e la sua traballante vita privata.
La Commedia Del Potere, titolo italiano, potrebbe suggerire che, a fronte di un sistema di scandalosa corruzione e vergognose distrazioni di fondi come quello che viene alla luce nel film, si possa paragonare il sistema d'affari sottobanco fra industria e politica (il potere, insomma) ad una sorta di commedia, in cui dopo tante peripezie tutto finisce bene (per i potenti, appunto). Nulla di tutto questo: si tratta semplicemente dell'ennesima, pacchiana e madornale leggerezza dei traduttori nostrani, incapaci di rendere l'idea dell'Ebbrezza del potere (L'ivresse du poivoir) che era il titolo originale scelto da Chabrol. In La commedia del potere Claude Chabrol abbandona la prediletta borghesia di provincia per affrontare di petto, col suo sguardo cinico quasi da entomologo, gli intrighi economici e politici e il loro rapporto con la giustizia. l film non vuole creare diretti riferimenti con la realtà ma ci lascia intendere a più riprese una sostanziale veridicità degli avvenimenti. E' un Claude Chabrol maestro della caméra-stylo quello che inquadra le porte del palazzo di giustizia che si aprono per Michel Humeau/François Berléand, i gradini che questi sale verso l'ufficio del pubblico ministero Jeanne Charmant Killmann/Isabelle Huppert, il trittico guanti/borsa/scarpe rosso fuoco di quest'ultima, le mani che frugano e maneggiano fascicoli e documenti durante le perquisizioni. E' un Claude Chabrol ironico quello che riprende gli interrogatori in cui non è permesso fumare (solo per gli interrogati però) e nei quali il gioco del gatto col topo regge ancora abbastanza bene, anche se visto e rivisto. E' un film discreto, con varie luci ed ombre quello che Isabelle Huppert illumina ancora una volta con una delle sue interpretazioni magistrali ed impeccabili, che qui serve a risollevare la creatura un po' zoppicante del suo mentore, fino all'ultimo fotogramma, fino all'ultima fulminante battuta. Il regista francese, ormai passati i tre quarti di secolo di vita, ha ancora voglia di analizzare i malanni della società sua contemporanea.
tres
LA DAMIGELLA D'ONORE (Claude Chabrol)
Un film di Claude Chabrol. Con Benoît Magimel, Aurore Clément, Laura Smet, Suzanne Flon, Bernard Le Coq, Michel Duchaussoy
Titolo originale La demoiselle d'honneur.Drammatico, durata 110 min. - Francia 2004
Un amore che consuma, per il quale si può anche uccidere. Petra è bellissima e fatale: a un matrimonio, il giovane Philippe ne rimane folgorato e la passione cresce in lui giorno dopo giorno. Come prova d'amore, la ragazza chiede che entrambi uccidano uno sconosciuto: lui pensa a uno scherzo, ma la ragazza pare mortalmente seria...
Chabrol fa centro, abbatte a picconate un'altra parte di quel che resta della borghesia francese e confeziona un thriller, psicologico quanto si vuole, ma pur sempre thriller, coi fiocchi. Tutto è come supposto, tutto sembra essere dipendente dalla volontà dell'altro, tutto sembra casuale. Ma in realtà tutto è tenuto insieme dalla protagonista, ambigua, suonata, bellissima, corruttrice, dark lady moderna che fa tanto retrò. La tensione tiene, i colpi di scena non mancano (occhio agli armadi), il tutto venato da una sottile venatura horror che non guasta, ma implementa e condisce la ricetta chabroliana. Chabrol è come un rifugio. Qualunque suo film, anche il meno riuscito, è una sicurezza. Ti prende per mano e ti porta in giro per la provincia francese, tra storie torbide e tenere, senza particolari scosse, senza mai deludere. Una filmografia abbondantissima, qualche guizzo sorprendente (l’ultimo è Grazie per la cioccolata) per poi tornare sistematico all’intelligenza della riflessione, della calma, alla puntigliosità della descrizione, all’ironia della definizione dei caratteri, anche quelli più tragici e neri. Chabrol ha inventato un filone, il “polar come mezzo di trasporto”: storie di uomini e donne sullo sfondo di un giallo; il crimine come strumento per svelare psicologie e anime, anche quelle normali, per bene, “apparenti”. La damigella d’onore è Laura Smet, figlia di cotanto padre (Johnny Halliday), bellissima e fatale. Con stile quasi dimesso, Chabrol evita volutamente il melodramma a tinte fosche. I suoi due amanti, pur nella disperazione, si mimetizzano con il placido ambiente. E il tocco gotico del racconto di Ruth Rendell che sta alla base del film diventa “quotidiano”. Meglio: chabroliano.
tres
IL GRIDO DEL GUFO (Claude Chabrol)
Un film di Claude Chabrol. Con Jean-Pierre Kalfon, Christophe Malavoy, Mathilda May Titolo originale Le Cri du hibou. Drammatico, durata 112' min. - Francia 1987
Dal romanzo The Cry of the Owl (1962) di Patricia Highsmith. Separato dalla moglie Veronique, Robert è affascinato dalla bella Juliette che, stanca di Patrick, fidanzato geloso, lo ricambia. Di questo quartetto di personaggi frustrati e nevrotici sopravvive soltanto Robert.
Tratto da un romanzo di Patricia Highsmith (con una sceneggiatura firmata dal regista e da Odile Barski, già co-autrice del precedente Volto segreto), Il grido del gufo è un prodotto riconoscibilissimo di Chabrol, anzi: alla Chabrol. Perchè si basa essenzialmente su due elementi che per il cineasta francese hanno costituito le fondamenta di un'intera carriera: il thriller psicologico a tinte fosche e il dramma borghese, ritratto di ambiente benestante popolato da individui ambigui e prede di malesseri vari. Nomi celebri nel cast non ce ne sono (Christophe Malavoy, Mathilda May, Jean Pierre Kalfon, Jacques Penot), la confezione non è curatissima (al limite quasi del televisivo) e il risultato è quindi un film 'di transizione', poco più che un esercizio in attesa di progetti più ispirati per un regista sicuramente meritevole di qualcosa di meglio. Il finale, tragico a oltranza, parrebbe confermare questa tesi. Dopo una prima parte piuttosto lenta e riflessiva, ma comunque interessante e soprattutto funzionale al resto del film, inizia la seconda, decisamente ascrivibile al genere thriller, in cui assistiamo ad un crescendo di tensione davvero riuscito che avvolge lo spettatore in una ragnatela vischiosa da cui è difficile liberarsi anche dopo il “discutibile” finale che a qualcuno potrebbe dare sui nervi. In ogni caso non un thriller tradizionale e con evidenti tocchi provenienti dal teatro dell’assurdo. Crudelissimo il personaggio della moglie.
I FANTASMI DEL CAPPELLAIO (Claude Chabrol)
Un film di Claude Chabrol. Con François Cluzet, Charles Aznavour, Michel Serrault, Aurore Clément Titolo originale Les Fantômes du chapelier. Poliziesco, durata 120' min. - Francia 1982
Dopo aver assassinato la moglie, un cappellaio di una cittadina bretone fa credere che è solo malata, mettendo un manichino seduto su una poltrona alla finestra. Per coprire il primo delitto, però, deve commetterne altri...
Simenon-Chabrol-Serrault: era lecito attendersi una perla cinematografica e questo film lo è. Come spesso accade, Chabrol ci trasporta nella provincia francese, questa volta in una cittadina della Bretagna. Pur essendo questo uno dei suoi migliori lavori di quel momento, per Chabrol gli anni '80 furono un periodo in costante declino artistico; basti pensare al fatto che nel solo 1982 licenziò altri due film (Danza macabra e Le affinità elettive), più un corto (M. le maudit), tutti per la televisione, per capire quanto il regista si affannasse nel lavoro e quanto poco probabilmente fosse interessato a lasciare un'impronta personale nelle sue opere. Curioso infatti constatare anche la variegata origine letteraria delle pellicole di questo periodo: se nei prodotti televisivi il regista attingeva da Goethe e Strindberg, qui la fonte è un libro di Simenon (sceneggiatura di Chabrol). Peraltro l'atmosfera del giallo di provincia permarrà nei seguenti Una morte di troppo (1984) e L'ispettore Lavardin (1986), tratti da altrettanti romanzi di Dominique Roulet Michel Serrault incarna il suo personaggio con una bravura che stordisce. Schizofrenico perfetto, appare affabile e dignitoso con gli altri notabili del luogo, compagni pressoché quotidiani di bridge nel bistrot locale; ridacchia e borbotta tra sé e sé nei momenti di solitudine; con la moglie-fantoccio interpreta, al limite del virtuosismo, alcuni monologhi grotteschi ma in fin dei conti tristi, battute leggere in cui si insinua un senso di isolamento e di disperazione. L’uomo è sempre lo stesso nei movimenti, nel portamento, nell’abbigliamento, ma si trasforma con uno sguardo, un sorriso, facendo venire la pelle d’oca. Viene così surclassato un altro grande serial killer di Chabrol, quel Landru interpretato dal pur bravissimo Charles Denner. Una vera sopresa ce la offre poi Charles Aznavour. Il cantante franco-armeno è certamente anche un attore di lungo corso, ma non mi era mai parso così convincente. Recita la sua parte di modesto sarto padre di famiglia con misura, con il tono giusto. Parla poco, osserva con lo sguardo incredulo, timoroso. Del resto, l’intero cast è impeccabile: personaggi di provincia, notabili e popolani, tratteggiati con grazia e dovizia di dettagli.
Iscriviti a:
Post (Atom)