martedì 2 luglio 2013

IL CAMMINO PER SANTIAGO (Emilio Estevez)



Titolo originale The Way. Azione, durata 94 min. - USA 2010

Tom (Martin Sheen), un medico statunitense, arriva in un paesino sui Pirenei francesi per recuperare il corpo del figlio, morto durante una tempesta mentre si stava recando in pellegrinaggio a Santiago de Compostela, in Spagna. Per capire cosa passasse nella mente del giovane durante quel viaggio, l’uomo decide di completare il suo progetto, affrontando in solitaria il percorso di 800 km che lo separa dal centro spagnolo e portando con sé le ceneri del ragazzo. Durante il cammino, Tom incontrerà altri pellegrini, che colmi di fede lo aiuteranno a riscoprire il vero valore della vita. 
“Il cammino per Santiago” (The Way, 2010) è la settima regia dell’attore e sceneggiatore Emilio Estevez. Quando un’opera chiude il cerchio familiare dall’origine galiziana del nonno (a cui il film è dedicato nei titoli di coda) fino al nipote che dirige come un diario il cammino di un’esperienza e la vita dei padri, il resoconto è sempre difficile da stilare ed è ancor più arduo separare il fatto personale e quello che è un film da distribuire e da sintonizzare col pubblico. Una pellicola girata con basso profilo, una certa libertà e visuale sull’orizzonte non certo guardando in modo drastico il senso di appartenenza e le mura concilianti(ri) della Chiesa. Dicono che sul cammino di Santiago avvengano miracoli. Di certo non si tratta di una semplice camminata, per alcuni è una fuga, per altri una ricerca, per altri ancora un’indimenticabile avventura. Ha le carte in regola per essere definito un film on the road Il cammino per Santiago. Nella sua semplicità, è opera riconciliante, avvolta da una musica che fa da protagonista e da un candore che non lascia indifferenti. La religione non c’entra niente, Tom e i suoi compagni di strada marciano verso un nuovo tipo di pace che non a caso non termina nella basilica di Santiago. Per raggiungerla è necessario continuare a camminare sino al mare, e oltre.

tres

LA SELVA DEI DANNATI (Luis Buñuel)



Un film di Luis Buñuel. Con Simone Signoret, Charles Vanel, Georges Marchal Titolo originale La mort en ce jardin. Drammatico, b/n durata 104' min. - Francia, Messico 1956

Una cittadina brasiliana ingaggia una lotta contro la società mineraria che vuole nazionalizzare i giacimenti. Un prete, una prostituta, un avventuriero e un minatore si rifugiano nella giungla per fuggire alla polizia. La violenza tra i membri del gruppo esplode incontrollata: tenteranno di uccidersi a vicenda.
La selva dei dannati è un’opera nella quale Buñuel analizza con occhio freddo e cinico (ma anche con improvvisi momenti surrealisti) i rapporti umani e le dinamiche sociali di un gruppo male assortito di persone. Un avventuriero, una prostituta, un missionario e un vecchio minatore con la figlia muta si ritrovano insieme dopo essere scappati dalla repressione dei militari, a causa di un tentativo di rivolta compiuto dai cercatori di diamanti del luogo. Fuggono su un battello e poi si perdono nella giungla. La natura, avvolgente e lussuriosa, diventa una sorta di laboratorio-prigione in cui Buñuel può osservare i comportamenti e le psicologie dei vari personaggi. Da prima sembra crearsi tra di loro una sorta di solidarietà, indispensabile per riuscire a sopravvivere in condizioni tanto avverse. Ma nel momento in cui vengono scoperti il resto di un aereo con ancora dei viveri a bordo e soprattutto un sacchetto pieno di diamanti questa parvenza di coesione sociale crolla per far riemergere in maniera selvaggia l’istinto di sopravvivenza e sopraffazione individuale. Inizia quindi un gioco al massacro da cui si salveranno solamente in due. Scomparse le leggi umane quelle della natura si dimostrano casuali e senza nessun controllo. Neanche la fuga in un mondo altro, lontano dalla società e dalle sue regole, sembra essere in grado di cambiare gli istinti individuali e le psicologie dei personaggi, che alla fine diventano simboliche nel rappresentare vari aspetti della condizione umana. Buñuel, partendo da un banale plot d’avventura e rielaborando il materiale narrativo insieme a Raymond Queneau e Luis Alcoriza costruisce una lucida e anarchica riflessione sulla violenza, sulla debolezza dell’animo umano e su quanto il vivere sociale più che una prerogativa dell’animale uomo sia una sua lontana e difficile conquista. Lo sguardo spietato di Buñuel si posa senza moralismi sulla miseria della condizione umana
Kapu

ESTASI DI UN DELITTO (Luis Buñuel)



Un film di Luis Buñuel. Con Ernesto Alonso, Rita Macedo, Miroslava Stern Titolo originale Ensayo de un crimen. Drammatico, Ratings: Kids+13, b/n durata 89' min. - Messico 1955

Alejandro ha visto morire, da bambino, la propria governante e ne ha avuto uno shock che lo porta da adulto, a una ossessione omicida nei riguardi delle donne ogni volta che sente la musica di un carillon che suonava anche in occasione di quella prima morte. Accade però sempre qualcosa per cui il suo impulso omicida arriva... in ritardo, ma lui si sente (vuole sentirsi) colpevole
In questo tipo di trama, Buñuel inserisce una serie impressionante di elementi che fanno riferimento all'esperienza surrealista, nonché ad altri film del regista. Il protagonista ricorda il Francisco di El (1953) ed anticipa sia il Don Lope di Tristana (1970) che il Mathieu di Quell'oscuro oggetto del desiderio (1978), nei quali Buñuel ribadisce, fino agli ultimi anni della sua carriera, i concetti che gli sono cari da sempre. La ricerca quasi impossibile e comunque continuamente frustrata della purezza nella figura femminile e l'incapacità di compiere sia l'atto sessuale che l'omicidio (come facce della stessa medaglia) si nascondono dietro alla trama, abbastanza banale, di un giallo all'americana, raccontato quasi per intero in flashback. Si è parlato di importenza del protagonista Archibaldo (chissà perché ribattezzato dai distributori italiani Alejandro, ma chiederselo è ormai una battaglia persa in partenza) e di guasti dell'educazione cattolica, che condurrebbero questo personaggio all'irrefrenabile desiderio di uccidere ed alla consapevolezza, peraltro erronea, di essere un assassino. Per la verità questi elementi sono soltanto presunti ed al massimo desumibili dal testo, ma mai esplicitati da Buñuel, che, al massimo, dissemina di oggettistica religiosa la casa del Nostro. È un po' come se il regista sparpagliasse nel film le tessere di un mosaico, affidando allo spettatore il compito di metterle insieme. Ma il disegno è ben presente nella testa del regista e, comunque si dispongano, le tessere del mosaico sono pur sempre quelle. Uno dei più notevoli esiti nella filmografia di Buñuel durante il suo "esilio" messicano: inventiva surrealista, gusto del paradosso, caustica ironia. Un piccolo capolavoro nel quale il regista colpisce i suoi bersagli con mira infallibile.
Kapu

IL FASCINO DISCRETO DELLA BORGHESIA (Luis Buñuel)



Titolo originale Le charme discret de la bourgeoisie. Commedia, Ratings: Kids+16, durata 105' min. - Francia 1972

Don Rafael Acosta (Fernando Reiy, ambasciatore in Francia del piccolo Stato Sudamericano di Miranda, approfittando della sua posizione diplomatica trasporta droga illegalmente facendo lauti affari con altre due distinte personalità, i signori Thevenot (Pauk Frankeur) e Senechal (Jean-Pierre Cassel). I tre soci, insieme alle mogli dei due, Simone Thevenot (Delphine Seyring) e Alice Senechal (Stephane Audran), e a Florence (Bulle Ogier), sorella di Simone, si frequentono molto e ogni volta che tentono di pranzare vengono interrotti da avvenimenti imprevisti e inusuali. Sei personaggi tipo e una situazione che ciclicamente si ripete più volte lungo tutto il film sono il pretesto usato da Luis Bunuel per una divertita disamina sullo stato di salute della borghesia.
"Il fascino discreto della borghesia" è uno sferzande apologo antiborghese, tutto giocato sull'ironia e sull'illogica concatenazione dei fatti narrati : per smascherarne i vizi privati e ammantare di grottesco il pubblico perbenismo. Viene derisa la sacralità di uno dei momenti cardini della condizione borghese, quella della riunione a tavola, dove tra una prelibatezza culinaria e l'altra, ognuno fa solitamente sfoggio della propria classe e ostenta la vastità delle proprie esperienze di vita. I convenevoli e le più opportune frasi di circostanza impazzano e per non non fare un torto alla gradevolezza della situazione l'ipocrisia benpensante tocca livelli d'eccellenza. Su tutto, a conferire quell'immancabile vena surrealista del maestro spagnolo, aleggiano i sogni dei tre personaggi che invece di marcare dei momenti di rottura con la realtà, l'evidente evasione da essa, rappresentano la continuazione plausibile della loro vita, la dimostrata ambiguità del loro perbenismo di facciata. Come a voler sottolineare che non è possibile mascherare in sogno ciò che è possibile fare nella realtà. Sale da the che non possono servire il the, cadaveri onorati in una sala di un ristorante, improbabili terroristi, storie di brigadieri "insanguinati" e di genitori defunti che appaiono al figlio per esortarlo a commettere un omicidio, le manovre dell'esercito nel giardino di una villa, un Vescovo (Julien Bertheau) che chiede e ottiene di essere assunto come giardiniere dai signori Senechal. Queste sono solo alcune delle situazioni grottesche che ruotano attorno alle vicende dei sei protagonisti, che contribuiscono a conferire al tutto un senso di perenne immobilismo, di voluta incompiutezza. Le loro azioni non giungono mai a compimento, sono sempre sul punto di fare qualcosa che non fanno mai, di cominciarle senza mai portarle a termine. Le situazioni rimangono sempre in sospeso, come un cerchio che non si chiude mai, come succedeva in "L'angelo Sterminatore", ma se nel capolavoro "messicano" il generale senso di indeterminatezza serviva a spingere dei borghesi delineati al massimo della loro forma nel baratro dei loro più bassi istinti, qui serve ad accrescere il senso della loro indole parassitaria, il fatto che la perpetuazione della loro posizione sociale, come evidenzia Ugo Casiraghi, deriva più "dall'inazione che dall'azione". Luis Bunuel c'è li mostra spesso mentre vagano lungo una strada in mezzo all'aperta campagna, intenti ad andare diritto verso un punto non ben precisato, come chi vaga senza una meta e senza una guida che gli indichi la direzione. Come chi non sa recitare ruoli diversi da quelli rigidamente definiti dalle convenzioni sociali (straordinaria in tal senso è la celebre sequenza sul "sogno del teatro"). Affatto preoccupati del vuoto che li avvolge, sanno di poter contare sull'alleanza funzionale dei loro amici (clero, esercito, polizia), sulla forza corporativa di un sistema di potere che riesce a sopravvivere all'iproduttività stessa delle proprie azioni. A far rimanere tutto indefinito e, perciò, tutto immutabile. Capolavoro, l'ennesimo di un maestro.
Kapu