Un film di Fritz Lang. Con Edward G. Robinson, Dan Duryea, Joan Bennett Titolo originale The Woman in the Window. Giallo, b/n durata 99 min. - USA 1944
Un docente di criminologia cena presso il suo club. Ha ammirato in una vetrina un quadro raffigurante una bellissima donna e questa - di cui nulla conosce - entra in un suo sogno, dapprima piacevole (la loro relazione sentimentale), ma che si trasforma poi in un autentico incubo.
Dal racconto di J.H.Wallis, Once Off Guard, The Woman in the Window appartiene a quella serie giallo/thriller a cui Lang si dedicò negli anni quaranta, creando autentici capolavori del genere noir. Prima di trasferirsi in Germania e poi negli Stati Uniti in fuga dal nazismo, Lang aveva respirato l’aria della Vienna d’inizio secolo, sopravvissuta alle macerie dell’impero absburgico, città che fu in quegli anni il vero “laboratorio sperimentale della fine del mondo”, secondo la celebre definizione di Karl Kraus. Della cultura viennese fra ottocento e novecento Freud era stata la personalità più rappresentativa e importante e Schnitzler aveva pubblicato nel ’26 la sua Traumnovelle, la novella del sogno, che rivela quanto di noi venga pietosamente e opportunamente sepolto nel profondo Lete, fiume dell’oblio del nostro inconscio, per esplodere poi nella valvola del sogno. Tempo reale e tempo virtuale, realtà e immaginazione, il volto e il suo doppio, si propongono nel film come temi di riflessione inesauribile, oggetto di narrazione composta e densa, costruita con montaggio sobrio, meticoloso e sapiente. La finzione è magistralmente orchestrata fino al margine estremo, il confine tra sogno e realtà non verrà colto se non quando il regista/demiurgo deciderà che ciò debba avvenire, al novantunesimo minuto. Va sottolineato che la "chiave" onirica è tutta di Fritz Lang... (farina del suo sacco, e l'intuizione è straordinaria) poichè il racconto "rappresentava" la storia con oggettivo realismo, tanto che si concludeva con un suicidio... Lang, esule forzato in America, non ha mai dimenticato le sue radici mitteleuropee, tanto che il suo speciale tocco è riconoscibilissimo e continautivo: cambiano a volte le modalità ma il filo conduttorre di tutta la sua operaq, sempre presente anche nei titoli minori, non si interrompe mai, nemmeno con il trasferimento oltre oceano... la matrice espressionista è avvertibilissima, come pure l'utilizzo di uno strepitoso Edward G: Robinson (se il film fosse stato girato in Germania, poteva essere un personaggio "perfetto" per Emil Janning.) Anche in questo "capolavoro" del noir, il tema centrale è in fondo il sottile confine fra innocenza e delitto quasi a voler significare che ogni uomo è un potenziale colpevole.: c'è ed è palese in "M" nel "Dottor Mabuse" e attraversa praticamente tutta l'opera americana del regista, non solo i film più riusciti e potenti, ma anche le opere (si fa per dire) "minori”, persino i suoi western (è la violenza della realtà a renderci ugualmente ingiusti e a volte persino crudeli)... o addirittura lo stevensoniano viaggio alla scoperta del mondo degli adullti, dove persino l'innocenza infantile viene disegnata come "ignoranza della realtà e vuota illusione". Un paradigma esasperato di tutto questo (il continuo cangiare della realta, quel niente è davvero ciò che sembra, i ribaltamenti della visiione e della percezione delle cose) è riscontrabile in un titolo che non è fra i più celebrati: "Prigioniero del terrore
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