giovedì 11 luglio 2013

MY NAME IS JOE (Ken Loach)



Un film di Ken Loach. Con Peter Mullan, Louise Goodall, Gary Lewis, David McKay, Lorraine McIntosh, Marie Kennedy Titolo originale My Name is Joe. Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 105' min. - Gran Bretagna 1998

A Joe, ex alcolista piace il calcio, la sua donna e si fa in quattro per difendere Liam dalle insidie della vita. Joe è un proletario dall'aria sorridente, uscito dalla sua dipendenza all'alcol per riuscire a non disprezzarsi. Joe si dà da fare con un'energia inesauribile, per la scalcagnata squadra di calcio che allena nel quartiere più disgraziato di Glasgow. La vita sembra farsi più dolce quando Joe incontra Sarah, un'assistente sociale appena un pelo sopra di lui nella scala sociale. 
Dopo la parentesi spagnola di Terra e libertà e la trasferta in Nicaragua di La canzone di Carla, Ken Loach torna con My Name Is Joe (anticipato l'anno precedente da The Flickering Flame, il documentario sullo sciopero dei lavoratori portuali di Liverpool) ad osservare indignato le piccole storie di "ordinaria disperazione" del suo universo proletario, sfruttato e senza speranze, raccontandone ancora una volta i drammi e le paure di fronte al peso insostenibile di un'esistenza misera e alienante: scritto dallo stesso Paul Laverty di La canzone di Carla e che lo accompagnerà fedelmente nei film successivi, My Name Is Joe è un'opera amara e raggelante nel pessimismo che ne divora con crudeltà ogni fiammella di speranza, un "conte moral" sull'impossibilità del riscatto sociale, anche quando inizialmente vuol soltanto lasciarsi amare per la levità dei ritmi da commedia (si osservi, ad esempio, la comicità drammatica e tutt'altro che liberatoria della sequenza in cui Joe assale a colpi di pennello l'automobile del funzionario comunale venuto a privarlo dell'assegno di disoccupazione). Loach segue i suoi personaggi pressandoli (proprio nell'accezione più "calcistica" del termine) con la sua macchina da presa fino allo sfinimento, mettendoli con le spalle al muro, demolendone l'eroismo con i colpi delle convenzioni civili che ne circoscrivono la sopravvivenza ad una mera coincidenza di casualità, affidandone l'interpretazione ad un formidabile cast d'attori, a partire dal quartetto di protagonisti (con uno straordinario ed indimenticabile Peter Mullan, premiato anche a Cannes) e fino ad arrivare alle efficacissime caratterizzazioni dei personaggi di contorno, dal David Hayman nei panni del gangster alla Lorraine McIntosh (la vocalist dei Deacon Blue) che interpreta Maggie, l'amica del cuore di Sarah. "Il mio nome è Joe. Sono un alcolizzato". Loach maneggia questa sentimental comedy con la stessa leggerezza con cui aveva costruito la storia d'amore tra il conducente d'autobus e Carla nella "Canzone di Carla" (sceneggiato, come questo, da Paul Laverty). E la commedia si sposta verso un nero di devastante lucidità sociale, mentre il pessimismo di Loach si fa sempre più sconsolato.
pippi

LADYBIRD LADYBIRD (Ken Loach)


Un film di Ken Loach. Con Crissy Rock, Vladimir Vega, Sandie Lavelle, Mauricio Venegas, Ray Winstone Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 102' min. - Gran Bretagna 1994

Maggie ha avuto una vita piuttosto difficile, nel corso della quale ha messo al mondo quattro figli avuti da quattro uomini diversi, due dei quali di colore. Conosce Jorge, un immigrato sudamericano, e conquistata dalla sua dolcezza, va a vivere con lui. L'assistenza sociale però, intervenuta in seguito a un incendio scoppiato quando i bambini si trovavano soli in casa, scopre le "irregolarità" di questa famiglia. Quindi dichiara Maggie non affidabile, togliendole i figli. 
Il cinema sociale di Ken Loach raramente è stato così intenso e lacerante. E una volta tanto si spoglia di tutte le connotazioni politiche per raccontare la storia di una donna, Maggie, quattro figli da quattro padri diversi e una condotta di vita perlomeno discutibile. E un incidente in cui i suoi figli rischiano di morire mentre lei è a cantare al karaoke determina l'attenzione su di lei dei servizi sociali che le tolgono la custodia di tutti i suoi figli. La cinepresa di Loach è prepotente, fruga nelle emozioni tirate fuori chissà come dall'esordiente Crissy Rock, curiosamente scoperta dal regista proprio in un locale di karaoke .Le sue grida, i suoi pianti, il suo apparire così consumata dal distacco dei propri figli bucano lo schermo. E al di qua dello schermo si rimane inevitabilmente sconvolti perchè non c'è nulla di più crudele che togliere i figli a una madre che li ama. E' la legge, la miopia della burocrazia, l'anelasticità delle normative che male si adattano alla molteplicità di casi umani a cui devono essere applicate. Non c'entra la politica, c'entra la legge che non ammette che qualcuno possa cambiare nel corso della propria vita. Loach da questo punto di vista ci propone un punto di vista abbastanza neutrale perchè non fa nulla per rendere la protagonista più gradevole ai nostri occhi. La storia di Maggie è una storia che può succedere a tutte le latitudini e con governi di qualsiasi orientamento politico. Ha a che fare con lo sfacelo sociale lasciato dal thatcherismo ma la lady di ferro non è mai nominata ,nemmeno suggerita. La storia di Maggie commuove perchè potrebbe succedere a chiunque. E sconvolge perchè è tutto rigorosamente vero. Quando lo si vide al cinema, nel vecchio cinemino d'essai con i sedili di legno uscimmo dalla sala letteralmente sconvolti. Ora lo rivediamo e l'emozione nonostante sono passati più di 15 anni è ancora quella della prima volta. Altra cosa che rende questo film ancora drammaticamente attuale è che la situazione sociale non appare migliorata da quasi vent'anni a questa parte. Nè in Inghilterra, nè qui da noi. E un cinema come quello di Loach che si "limita" (ma è una limitazione per modo di dire ,il suo è un talento cristallino che gli permette di raccontare le varie vicende con stile quasi documentaristico) a filmare la realtà non filtrandola in alcun modo, è oltremodo necessario in un mondo dominato dal disagio sociale e che è sempre alla ricerca di chi racconti la verità..... L’ambientazione, il contesto sociale degradato, la difficoltà quotidiana dell’esistenza delle persone in situazione di disagio, le ingiustizie e i problemi di un sistema che, dopo la “cura” Thatcher e il declino economico, comincia a mostrare preoccupanti segni di tenuta del welfare, sono mirabilmente tratteggiati da un grande regista ancora in grado di colpire nel segno.
pippi

MIRACOLO A LE HAVRE (Aki Kaurismäki)



Titolo originale Le Havre. Commedia, durata 93 min. - Finlandia, Francia, Germania 2011

Marcel Marx un calzolaio di Le Havre, trascorre una esistenza modesta ma tranquilla al fianco di sua moglie. Non sa però che la donna cova una malattia grave che fino a quel momento gli ha nascosto. Quando la donna capisce di non poter più mentire, per Marcel il colpo è durissimo. Così, mentre vaga sconvolto per il porto di Le Havre, incontra un ragazzino africano, un immigrato clandestino che in ogni istante è minacciato di essere allontanato. Marcel si affeziona al ragazzo e si mette così in testa di proteggerlo.
Kaurismäki – colui che ha dedicato trilogie a proletari e perdenti – rappresenta i margini del mondo, con piglio brechtiano e surreale: non c’è naturalismo nel suo sguardo, sadico compiacimento o monito alla compassione, ma il filtro di un cinema ostinato, che riduce il reale a quadri da bande dessinée, stilizza un quartiere in un microcosmo dove vige nobile e gentile il mutuo soccorso, riabilita ideali scomparsi, fa dell’amore materia cocciutamente romantica. Parte dalla realtà dei giorni nostri, Kaurismäki. E la trasforma in una lirica popolare e astratta. Marcel Marx ha il nome di Carné, il cognome di Karl. Realismo poetico (Arletty è il nome della diva di quel periodo) e dialettica, perché il cinema non è la realtà, ma aiuta a comprenderla. Invertendola di segno, stampandone unicamente i positivi. Kaurismäki sposa Chaplin a De Sica, Tati a Bresson, Pagnol a Dreyer, sviluppa un’economia narrativa che ha De Oliveira come unico eguale, giura amore al cinema del Fronte Popolare, irride (tramite l’infame Léaud) gli snobismi della Nouvelle Vague. E questo miracolo d’estetica – in cui sottrarre non significa semplificare, in cui i dettagli dicono di un mondo – si fa opera etica e politica: Aki Kaurismäki non lava le coscienze, non permette l’indignazione usa e getta, non aderisce al dolore della verità. Ma ci invita a confrontarci con una bellissima bugia. «Ero già disincantato di fronte a molte cose fin dall’età di dieci anni, ma allora cercavo di fingere in modo da poter dare speranza agli altri». E mentre i lieto fine si affastellano inverosimili, un ciliegio in fiore richiama Ozu ai nostri occhi, che piangono lacrime sincere: perché è quell’eccesso di Grazia a ricordare alla favola d’essere una semplice e meravigliosa illusione. Chi conosce il cinema dell’autore finlandese sa bene che in tutto questa dimostrazione sentimentale per la parte più emarginata dell’umanità non c’è nulla di consolatorio, che lui preferisce l’ironia alla compassione, la concretezza dell’impegno ai sermoni "moralizzanti" sui drammi esistenziali. Col suo cinema, lui ama spesso sottolineare che la vita è una cosa che vale sempre la pena essere vissuta, nonostante tutto, ed è in fondo questo l’unico miracolo realmente riconoscibile e ragionevolmente condivisibile: perché i fiori saranno sempre bellissimi, i colori seguiteranno a squarciare di vivida luce il grigiore che avanza e il vino non finirà mai per i suoi poeti del disincanto.
Kapu