mercoledì 10 luglio 2013

INLAND EMPIRE - L'IMPERO DELLA MENTE (David Lynch)



Titolo originale Inland Empire. Drammatico, durata 172 min. - USA, Polonia, Francia 2006

Delirante, irraccontabile, "definitiva" opera di David Lynch. L'attrice Nikki Grace viene scelta per interpretare _Il buio cielo del domani_, remake di un film maledetto mai concluso a causa della morte violenta dei due protagonisti. Vittima di una sorta di transfert, Nikki comincia a immedesimarsi nel copione, finché realtà e finzione si mescolano senza soluzione di continuità... 
Lynch scriveva la sceneggiatura giorno per giorno, seguendo le strade perdute lungo le quali i suoi personaggi s'inoltravano. Ogni porta si apre su un'altra porta, ogni schermo su un altro schermo, nessuno può sapere con certezza se è spettatore o protagonista, se guarda o piuttosto è guardato. Quella parete in ombra, quel buco nero che ingoiava a metà film i protagonisti di Lost Highway per risputarli fuori in un'altra storia e un altro mondo si è illuminato ed è diventato il paesaggio labirintico nel quale il tempo e lo spazio si riavvolgono su se stessi senza soluzione di continuità. Girano in cerchio, come una puntina sul vinile. INLAND EMPIRE è un tuffo in un disegno di Escher, su scale che si inerpicano nel nulla, porte che si aprono su finestre, camere infinitamente concentriche. Un viaggio nel mondo di David Lynch guidato da un maestro di cerimonie d'eccezione, l?autore stesso, che sorride beffardo dietro la maschera accomodante del regista Jeremy Irons. La realtà razionale cede il passo all'universo onirico e surreale, dove Alice continua a infilarsi in specchi, case, vite sfuggite al controllo quotidiano e, a forza di aprire porte su altrove ignoti, riallaccia i fili della vita di un'altra Alice straniera, imprigionata davanti a un teleschermo. Ancora più libero ed estremo di Lost Highway e di Mulholland Drive, INLAND EMPIRE (una strada di East Los Angeles) è un paese come Twin Peaks, privo però della sua (relativamente) chiara segnaletica televisiva. Come a Twin Peaks, qui gira gente strana: una cinese e una nera che discutono sulla strada più breve per raggiungere Pomona con i mezzi pubblici, un produttore esecutivo che con spudorata flemma chiede qualche dollaro in prestito a chiunque, un gruppo di strampalati artisti del Baltico a un barbecue, tre conigli in un salotto, e le risate e gli applausi finti del pubblico che ne sottolineano ogni minima azione. Come a Twin Peaks, le chiavi per aprire i misteri sepolti e presenti si trovano solo sotto la superficie della nostra mente. Come a Twin Peaks, a INLAND EMPIRE, la mente se mai nasconde, ma non cancella. "INLAND EMPIRE" è un inno al cinema fatto da chi fa cinema.

tres


CONFIDENZE TROPPO INTIME (Patrice Leconte)



Un film di Patrice Leconte. Con Sandrine Bonnaire, Fabrice Luchini, Michel Duchaussoy, Molly Picon Titolo originale Confidences Trop Intimes. Drammatico, durata 104 min. - Francia 2003

Un equivoco dà origine a un'intensa relazione. Convinta di trovarsi nello studio di uno psicoterapeuta, senza essersi resa conto di aver sbagliato porta, Anna si confida con William Faber, consulente finanziario. Seguono altri appuntamenti, anche dopo che William le ha rivelato la sua vera identità...
Leconte dirige con maestria un “breve incontro” cinematografico di parole e sguardi. «Quello che si dichiara e quello che si nasconde» è una pratica che accomuna, in modo singolare e imprevedibile, il lavoro dello psicanalista (qualunque sia la sua scuola di riferimento, il suo nume tutelare, lo stregone della psiche che ne determina il metodo) e la professione, meno brillante, più precisa, più disturbante (per i clienti), del commercialista. Su quello che potrebbe sembrare un paradosso teorico e metodologico, Patrice Leconte struttura un sapido thriller dell’anima che si vorrebbe fosse interminabile come teorizzava Freud dell’analisi. Quello che conta nelle sedute sono soprattutto le parole, le affabulazioni, i ricordi, le fantasie, i desideri. La cura prevede un set in cui due coprotagonisti si spartiscono abbastanza rigidamente i ruoli: uno ascolta e l’altro parla. In fondo, sono ruoli alla portata di tutti. Anna (Bonnaire) sbaglia (un atto mancato o una scelta deliberata?) la porta d’ingresso su un pianerottolo e si trova a raccontare le sue pene matrimoniali a un fiscalista, William Faber (Luchini). Il consulente finanziario è un buon ascoltatore ed è attratto dalle confidenze della sua cliente per caso. Tra i due scatta una complicità rituale, si stringe un legame che è molto più suadente e sfuggente di uno scontato transfert tra paziente e analizzante. La cura serve ad entrambi. Leconte, servito a meraviglia da tutti i suoi interpreti (il cast è ammirevole anche nei ruoli più circoscritti), realizza il suo “breve incontro” intorno ad un divano e ribadisce che l’immaginario del cinema può essere fatto solo di parole e di sguardi. Dunque solitudine e bisogno di attenzione, forse di amore, voyeurisme nell’ascolto, ma anche nel vedere, c’è anche qui una finestra (Hitchcock) e ricordiamo L’insolito caso di Mr. Hire con quel guardare l’amore altrove del sarto solitario (“Ci sono punti in comune, ma quello era un film secco, sobrio, questo è più carnale”), lì il finale è drammatico, qui è catartico, sensuale e discreto al tempo stesso, liberatorio per entrambi, perché, continua Leconte: “Il miglior momento dell’amore è quando si salgono le scale, tanto meglio se il piano è più alto perché il momento si prolunga. Parlare d’amore o di sesso, far planare sulle teste un profumo di desiderio, di erotismo è qualcosa che io trovo estremamente cinematografico, mi piacerebbe che la gente uscisse dalla sala per andare a fare l’amore” .
Kapu

L'ESTATE DI KIKUJIRO (Takeshi Kitano)


















Un film di Takeshi Kitano. Con Takeshi Kitano, Kayoko Kishimoto, Yusuke Sekiguchi, Kazuko Yoshiyuki Titolo originale Kikujiro. Commedia, Ratings: Kids+13, durata 116 min. - Giappone 1999

Raccontare l’odissea di un bambino e del suo singolare compagno di viaggio. Con i toni dolci della commedia. È estate e Masao si sta annoiando. Il bambino abita a Tokyo con sua nonna che lavora tutto il giorno. I suoi amici sono partiti per le vacanze e il campo da pallone dove gioca con i suoi amici è deserto. Grazie ad un'amica di sua nonna, Masao incontra Kikujiro, un cinquantenne duro con il quale va alla ricerca della madre che non conosce e che vive vicino al mare. Kikujiro ha qualche difetto e sicuramente non è la persona adatta per accompagnare Masao nel viaggio, ma non può dirgli di no. 
Con un occhio a “Il monello” di Chaplin (l’ha dichiarato lo stesso Kitano), rivisto attraverso la tradizione moderna di road movie con bambini (per esempio, “Alice nelle città” di Wenders e “Paper Moon” di Bogdanovich), Kitano coniuga il suo straordinario senso cromatico (paesaggi che sembrano tele dipinte e le incredibili camicie hawaiiane dei due protagonisti) con il suo gusto per la comicità demenziale (i due trucidi “Hell’s Angels”, che finiscono per rivelarsi imbranati e giocherelloni, interpretati da due degli attori del gruppo “Takeshi Gundan”, con il quale Kitano lavora nei suoi spettacoli televisivi) e con quella malinconia della violenza e della perdita dell’anima giapponese che sempre serpeggia nei suoi film. La favola, che in fondo non è buona, ma rattristata dall’immagine di una madre che si è rifatta una vita “regolare” (come non ricordare Peter che in “Peter Pan nei giardini di Kensington” torna a casa e trova le inferriate alle finestre e la mamma con un nuovo bambino, appena nato?), concilia, almeno, sulla possibilità di solidarietà tra personaggi che, all’apparenza, non dovrebbero aver niente da spartire. Formalmente accecante, è capace di meraviglie visive con le suggestioni e i lampi generati dall’inconscio infantile e da quello, bizzarro, di un adulto che vive oltre la soglia dell’eccentricità. Follie di Takeshi Kitano, l’autore cattivo e inventivo che ha rianimato con folgoranti pennellate (“Hana-bi”) e suicidi in primo piano (“Sonatine”), con una violenza che, programmaticamente, sfiora sempre l’autoparodia e risate che paiono ferite che squarciano il volto umano, il cinema giapponese contemporaneo. Amatissimo dal pubblico dell’ultimo festival di Cannes, esce in Italia “L’estate di Kikujiro”, l’ultimo film di Kitano, spiazzante road movie “natalizio”, che descrive il viaggio attraverso il Giappone, durante un’estate calda, di Masao, un bambino alla ricerca della madre, e di uno stravagante ex yakuza un po’ suonato, cui Masao è stato affidato da un’amica della nonna.
Kapu

CHEF ( Daniel Cohen)

Locandina Chef
















Titolo originale Comme un chef. Commedia, durata 84 min. - Francia, Spagna 2012. - Videa - CDE uscita venerdì 22 giugno 2012.

Jacky è un cuoco dai gusti raffinatissimi costretto a misurarsi con taverne e bistrot parigini dove i clienti consumano solo cibo mordi e fuggi. Licenziato dall'ennesimo ristorante, trova un impiego come imbianchino in una casa di riposo per riuscire a sostenere le esigenze della compagna, incinta e prossima al parto. La sua attitudine per la nouvelle cuisine lo porta tuttavia a intromettersi continuamente nella cucina e nelle ricette per gli anziani, tanto da attirare l'attenzione di Alexandre Lagarde, famosissimo chef in crisi di ispirazione. Oppresso da un giovane imprenditore che minaccia di portargli via il suo ristorante, Lagarde offre a Jacky l'opportunità di lavorare al suo fianco per continuare a far brillare le stelle del suo gourmet.
Come si cucina una commedia europea non troppo speziata e adatta ai palati di tutto il mondo? Si prende un protagonista geniale e incompreso, gli si affianca un mentore in crisi di ispirazione e li si serve su un letto di valori positivi come amore, famiglia e difesa della tradizione. Et voilà, ecco la ricetta del perfetto prodotto da esportazione: abbinabile con ogni tipo di salsa e idealmente declinabile in un'infinità di remake, proprio perché basata sui piaceri primari della gastronomia contro ogni forma di vacua sofisticazione. Per Chef andare contro il sofisticato significa prima di tutto impastare una sceneggiatura semplice e appetibile e farla lievitare grazie alla popolarità trasversale di Jean Reno e alla notorietà televisiva di Michaël Youn. I due attori funzionano piuttosto bene come abbinamento finché il film si attiene alle portate principali (l'amicizia maschile, la sfida a mantenere il prestigio culinario), ma tendono a farsi incolore negli elementi di contorno (dissidi romantici; siparietti farseschi).Tipica rappresentazione di un cinema "da asporto", facile e veloce da consumarsi, Chef, al contrario di quanto racconta, preferisce i gusti semplici agli accostamenti arditi, i sapori edulcorati a quelli veraci. E si accompagna rigorosamente con un bicchiere d'acqua fresca.

tres                 

FRATELLI (Abel Ferrara)

Locandina Fratelli
















Un film di Abel Ferrara. Con Christopher Walken, Annabella Sciorra, Isabella Rossellini, Vincent Gallo, Chris PennBenicio Del Toro, Victor Argo, Gretchen Mol, Mimsy Farmer, Rudiger Vogler
Titolo originale The Funeral. Drammatico, durata 103' min. - USA 1996

A metà degli anni '30 a New York, durante la veglia funebre, i fratelli Ray e Chez Tempio decidono di vendicare l'assassinio del più giovane Johnny. Più che un mafia movie, è una tragedia morale mimetizzata da film gangsteristico che fa irrompere il "sacro" (l'esistenza di Dio e quella del Male, l'etica cristiana, il libero arbitrio, la vendetta, il perdono, la carità) nei codici di un genere cinematografico. Scritto dal geniale Nicholas St. John, abituale collaboratore di Ferrara, e fotografato da Ken Kelsh su due tonalità dominanti (nero, verde), si conclude con una strage che l'avvicina ai massacri del teatro elisabettiano. Una delle novità del film che ha poco da spartire con quelli analoghi di Coppola e Scorsese, è il ruolo positivo, antagonistico e rivelatorio delle mogli. Passa attraverso loro la critica laica (o protestante?) al familismo amorale di fondo cattolico/mediterraneo che è alla radice del costume e della mentalità mafiosa. Straordinaria compagnia di attori. Coppa Volpi a Venezia per C. Penn.

tres              

L'ODIO (Mathieu Kassovitz)



Titolo originale La haine. Drammatico, Ratings: Kids+16, b/n durata 95 min. - Francia 1995

In un quartiere periferico di una città francese come tante, fatto di miseria, etnie più o meno assortite e criminalità di vario genere, soffia il vento della rivolta. L'occasione che la fa esplodere è il brutale interrogatorio a cui la polizia sottopone un ragazzo di sedici anni. Nella lotta emergono le difficoltà e le differenti personalità di tutti i giovani che sono stati coinvolti. Non andrà bene per tutti.
L'urlo della banlieue. Vite buttate agli angoli di una periferia come tante. Sono talmente tante queste banlieues che non hanno nomi ma solo numeri .E sono tutte uguali almeno a prima vista. Così come i ragazzi che le abitano sono accomunati dagli stessi sogni per il futuro (hanno tutti il minimo denominatore della fuga), dagli stessi incubi del presente (la violenza impera), dalla stessa mancanza di prospettive e soprattutto dall' odio verso le istituzioni e la polizia vista esclusivamente come braccio armato di una sorta di dittatura. E'questo il clima sulfureo in cui Kassovitz cala la sua opera seconda, un film girato in un bianco e nero roboante e uno stile ultrarealista, talmente più vero del vero che suscita sospetti. La macchina da presa si muove nervosa, il montaggio in certi frangenti arriva a essere frenetico, tutto ottimizzato per rendere al meglio il clima di ansia e di urgenza che si respira in tutto il film. Ma non è un caso che emerga la cinefilia del regista (la citazione di Taxi driver quando Cassel imita Travis Bickle davanti allo specchio) e anche qualche preziosismo nascosto tra le righe. Kassovitz racconta il fermento di questi giovani emarginati che cercano una speranza: li accompagna nella loro giornata che si snoda tra incontri vari, passeggiate in una terra di nessuno, piccoli scontri con la polizia che cerca di ristabilire una minima parvenza di ordine in questa parte di città dimenticata. Il tono che inizialmente è più leggero (termine da prendere nel senso più esteso possibile) mano mano si incupisce. L'odio è annidato in entrambi gli schieramenti sia tra i rivoltosi che tra i polziotti e Kassovitz insinua il dubbio che a volte fare il poliziotto non significa stare automaticamente dalla parte della legge. E comunque alla luce del finale non è possibile alcuna riconciliazione. La banlieue rimane un ghetto di emarginati, quasi un appendice inutile da troncare. Tutto il significato del film è racchiuso in quella storiella che viene raccontata da Hubert , di uno che si butta dal cinquantesimo piano e a ogni piano continua a ripetere "Fin qui tutto bene". Il problema è l'atterraggio,non il volo. L'odio rinuncia a sociologismi d'accatto consegnando ai posteri quasi un invettiva rap in cui cerca di distribuire virtù e vizi da entrambe le parti della barrricata. Il film all'epoca fece voltare più di una testa nella critica cinematografica di allora. Avevano ragione, peccato che la carriera da regista dell'allora 28enne Mathieu non si sia confermata poi a questi livelli. La cosa che colpisce ancora a distanza di anni di questo film è la sua stringente attualità: la banlieue col tempo è diventato un non luogo cinematografico in cui si aggira parte del cinema francese. Ma l'emarginazione è rimasta la stessa. Anche se talvolta qualche figlio della banlieue si riscatta riuscendo ad oltrepassare quella dannata barricata diventando ricco e famoso senza per questo dimenticare le proprie origini e gli amici di un tempo ,vivi o morti. 
Kapu

LA SCHIVATA (Abdel Kechich)



Un film di Abdel Kechiche. Con Osman Elkharraz, Sara Forestier, Sabrina Ouazani, Nanou Benhamou, Hafet Ben-Ahmed, Aurélie Ganito, Carole Franck, Hajar Hamlili, Rachid Hami, Meriem Serbah, Hanane Mazouoz, Sylvaine Phan Titolo originale L'Esquivé. Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 117 min. - Francia 2003

Banlieue di Parigi, gruppo di ragazzi in un esterno. Per amore di Lydia, Crimo cerca di avere la parte di Arlecchino nella recita scolastica tratta da Marivaux. Ci riesce, ma poi è impacciato e paradossalmente, vista la maschera, “incolore”. Intanto, sul palcoscenico della vita, incroci, sproloqui, contaminazioni: ragazzini e ragazzine beur che giurano “sul Corano della Mecca”, sinofrancesi di prima generazione, sbirri incattiviti dai luoghi, refurtiva e droga, “l’odio” che impregna l’ambiente. La denuncia di un certo male di vivere fa da sfondo sommesso all’evoluzione emotiva dei ragazzi, come un qualcosa che esiste ma che intanto è impegnato ad occuparsi d’altro, assorbito nell’eccezionalità dell’ evento teatrale che riesce a interrompere il monotono rincorrersi dei giorni.
Quella di Abdel Kechiche è una camera stylo che racconta con pudica forza i suoi personaggi, applicando una poetica "alta" (Marivaux: è il condizionamento sociale a rendere schiavi di un ruolo e di un ambiente) a un contesto terribilmente "basso". La banlieue, la frontiera, la darkness on the edge of town dove i destini sono (già) segnati. Senza didascalismi, retorica o quant'altro, tutto in stato di grazia a partire dai due protagonisti. Il doppiaggio eccede in romanesco ma è inutile accanirsi. Questa volta era impresa ardua. Tuttavia, signori, un film straordinario. Libero. Sincero e appassionato come L’eau froide di Assayas, rigoroso e “etico” come Loin di Téchiné. Veramente il titolo mancante, in quest’epoca di “magra”, per riconciliarsi con il cinema. Quella di Abdellatif Kechiche è una camera stylo che racconta con pudica forza i suoi personaggi, applicando una poetica “alta” (Marivaux: è il condizionamento sociale a rendere schiavi di un ruolo e di un ambiente) a un contesto terribilmente “basso”. La banlieue, la frontiera, la darkness on the edge of town dove i destini sono (già) segnati. Senza didascalismi, retorica o quant’altro, tutto in stato di grazia a partire dai due protagonisti. C’è un po’dello sguardo etico dei fratelli Dardenne in questo secondo lungometraggio di Abdel Kechiche, abbastanza di quel loro modo antiretorico di trattare la marginalità sociale standosene in disparte a registrare la vita che scorre. “La schivata” è un film di delicata crudezza che, concentrandosi sugli abituali “sproloqui” di un gruppo di adolescenti, ci parla delle difficoltà proprie di chi vive ai confini delle metropoli occidentali di affrancarsi dallo scomodo ruolo di emarginato sociale. L’espediente narrativo della preparazione di uno spettacolo teatrale ha un ruolo assolutamente centrale nell’economia del film e Abdel Kechiche lo usa, non per arrivare ad un elaborata riflessione sul confine tra realtà e finzione, sul ruolo dell’arte e sull’opera di mediazione dell’uomo-attore, ma per chiarire i tratti di una sorta di determinismo sociale attraverso la commistione esistenziale tra una realtà da rappresentare a teatro e i personaggi che dovranno interpretarla. La stessa struttura dell’opera di Marivaux ci suggerisce questo. 
Kapu

BAD BOYS (Rick Rosenthal)



Un film di Rick Rosenthal. Con Sean Penn, Reni Santoni, Clancy Brown Drammatico, durata 123' min. - USA 1983

Due bande di Chicago l'una contro l'altra armate. Mike O'Brien, che capeggia la prima, una sera uccide accidentalmente il fratello minore di Paco Moreno, il boss della banda avversaria. Per vendetta Paco violenta la ragazza di Mike, ma la faida non termina lì perché entrambi vengono rinchiusi nel carcere minorile di Rainford...
Dura pellicola sui disagi giovanili all'inizio degli anni 80 con una parte ambientata nelle strade malfamate (dove si spaccia e consuma eroina) e l'altra in carcere (dove i protagonisti subiscono soprusi). Bellissimo film. Una perla in un filone che negli anni 80' ebbe un discreto successo ovvero quello del disagio giovanile che si manifesta attraverso l 'impossibilità di via di uscita da una società che aveva ed ha un suo particolare slogan: "Largo ai giovani" "I giovani sono il futuro", ovvero la più grande truffa della civiltà unama. Sean Penn (O'Brian) incarna in modo "Stanislavskijano" un personaggio incredibilmente vero, incanalato come troppi in una società sporca e degradata che si rispecchia perfettamente nella giovantù di ieri e di oggi. Il tema del carcere è disegnato in modo efficace (ragazzi di ogni nazionalità: l'italiano, l'ebreo, l'irlandese ecc. in un ambiente malsano non diverso comunque dalla strada). Strada e carcere si trasformano cosi' un unico essere e questo vuol dire niente vittoria ma solo lasciare le quattro mura del carcere per sostituirle con le quattro mura che la società offre: il risultatato non cambia. I secondini si trasformano così in educatori, lo fanno come possono e duramente (bravissimi gli attori) cercando attraverso le parole di una vita vissuta (un carceriere e il direttore a O'Brian) una redenzione difficile da comprendere. C'è anche una bella storia di amicizia (Horowitz e O'Brian), una amicizia dettata anche dalle leggi di sopravvivenza in un contesto difficile ma anche vera. C'è poi un amore difficile ma anche questo vero quello tra O'Brian e la sua ragazza, il tema della vendetta che sottolinea la linea principale del film. Sono molti i temi presenti attualissimi e duri in una pellicola da riscoprire assolutamente. Filmissimo.

tres