venerdì 12 luglio 2013

BREAD AND ROSES (Ken Loach)



Un film di Ken Loach. Con Elpidia Carrillo, Adrien Brody, Pilar Padilla, Jack McGee Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 112' min. - Gran Bretagna 2000

Alcuni immigrati sono stati reclutati da una ditta di pulizie e puliscono, silenziosi e quasi invisibili, gli uffici di un palazzone californiano. Da Cuernavaca, con altri clandestini, arriva Maya, sorella minore di Rosa una degli operai sottopagati, non tutelati, sfruttati, spaventati e ricattati dal caporale che supervisiona il lavoro. Poi per fortuna un sindacalista smuove le acque. 
Loach, in trasferta americana, con una storia di donne combattive e sottopagate. Lucido e ben sceneggiato.La sceneggiatura, di Loach e Paul Laverty, anche se di impronta socio- politica non ignora l’aspetto umano ma c’è poco humor e molto impegno. La Spagna e la guerra civile in “Terra e libertà”, il Nicaragua e la storia d’amore ai tempi della rivoluzione sandinista in “La canzone di Carla” e ora Los Angeles e la lotta sindacale degli addetti alle pulizie in “Bread and Roses”. Ken Loach va verso Sud e insiste, con una coerenza pervicace, a praticare un cinema militante, a sinistra, estraneo alle mode e al trasformismo. Proletari di tutto il mondo unitevi, se non altrove, in un’inquadratura, in una sequenza. In nome di uno slogan che ha quasi cento anni e che pretende, con forza e con rabbia, il pane e le rose per una vita migliore. Ken Loach ha scelto sulla base di uno slogan del 1912, che andava a significare il necessario e il superfluo, cui avrebbero diritto tutti i lavoratori. Un invito alla ribellione e all'azione concreta, in nome dei propri diritti. l realismo di fondo è come sempre una delle principali forze nella costruzione delle storie dei film del regista. Fra gli interpreti i nomi più noti sono quelli di Adrien Brody (già con Malick e Spike Lee), Lilian Hurst (proveniente da svariate serie tv, fra cui Dharma & Greg e Innamorati pazzi) ed Elpidia Carrillo (Le cose che so di lei, di Rodrigo Garcia, e Predator 1 e 2): non esagerati; mentre Pilar Padilla (che ha il ruolo centrale di Maya) è qui esordiente
Kapu

TERRA E LIBERTA' (Ken Loach)



Un film di Ken Loach. Con Ian Hart, Iciar Bollain, Rosana Pastor, Tom Gilroy, Angela Clarke, Frédéric Pierrot Titolo originale Land and Freedom. Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 109' min. - Gran Bretagna, Spagna 1995

Un omaggio appassionato e malinconico alla Spagna del '36. Spagna 1936. Un giovane inglese raggiunge le Brigate Internazionali per combattere contro le truppe franchiste. Si mescola con spagnoli, italiani, americani, francesi. Si innamora di Blanca, assiste al disgregarsi violento e dolorosissimo della solidarietà delle sinistre: i comunisti stalinisti da una parte e i comunisti del Poum e gli anarchici dall'altra. È soprattutto la storia di una rivoluzione tradita, annientata dalla politica del partito comunista russo dell'epoca. 
Fiero ed integerrimo nel suo credo, Ken Loach in questo film, che ripercorre da lontano la rivoluzione del popolo spagnolo contro le brigate franchiste, ne approfitta per sottolineare, ancora una volta, le sue idee stando dalla parte dei più deboli che credono di poter cambiare il mondo e contro il potere che invece, di qualunque bandiera esso sia, punta inevitabilmente a mantenere il suo status. Il messaggio del film di Loach è limpido, se da un lato tanti uomini propositivi sono spinti a lottare per gli ideali in cui credono fermamente, dall’altro poi sorgono sempre delle ingerenze dall’alto che impediscono di ottenere il risultato faticosamente ricercato. E lo fa con un percorso piuttosto ricco, tra battaglie porta a porta, dubbi del singolo sulla posizione da tenere di fronte alla diaspora del fronte rivoluzionario, discorsi sul credo comunista contro la proprietà privata ed un pizzico di sentimento che serve per rendere più vivi i personaggi. Film complessivamente ben fatto anche dal punto di vista tecnico ed organizzato piuttosto bene, riesce così ad affrontare un buon raggio di emozioni, risultando denso. Amore & politica. Quando Ken Loach è particolarmente in vena di fare il sentimentale, non può che parlarci di queste due cose: per lui nessuna componente della vita umana può prescindere dalla politica e già dal titolo questo film lo dimostra. Terra, cioè uno spazio fisico, materiale; e libertà, una condizione e soprattutto un diritto, una necessità inscindibilmente legata alla concretezza della terra. Iil nodo focale della sceneggiatura di Jim Allen (L'agenda nascosta, 1990; Piovono pietre, 1993) sta nel bisogno di ricercare un equilibrio fra le due componenti del motto del titolo, che finiscono per dividere a tutti gli effetti le due sponde del movimento rivoluzionario. Protagonista, ineccepibile, è Ian Hart, che curiosamente era stato in Spagna solo tre anni prima nella finzione di The hours and times (Christopher Munch, 1991), ma in quell'occasione interpretava John Lennon (!), ruolo in cui era talmente spiccato da meritarsi di replicarlo per Backbeat di Iain Softley (1994). Nel resto del cast, come è tradizione per Loach, non ci sono grandi nomi, ma tutto funziona a dovere; molte scene in esterno, grande importanza dei dialoghi.
Kapu

L'AGENDA NASCOSTA (Ken Loach)



Un film di Ken Loach. Con Frances McDormand, Mai Zetterling, Brad Dourif, John Bernfield, Brian Cox Titolo originale Hidden Agenda. Poliziesco, Ratings: Kids+16, durata 108' min. - Gran Bretagna 1990

Paul Sullivan, avvocato della Lega internazionale per i diritti civili, in Irlanda per un'inchiesta, viene freddamente ucciso dalla polizia. La versione ufficiale attribuisce la morte al tentativo di Sullivan di forzare un posto di blocco, ma è una menzogna. Di questo è convinta Ingrid, la sua fidanzata, che si mette a indagare e, con l'aiuto di un poliziotto inglese, scopre alla fine la verità. 
Al festival di Cannes 1990 riemerge Ken Loach, premio speciale della giuria, con un film duro, freddo e politico come ormai non se ne facevano più. Frances McDormand (Blood Simple di Joel Coen e America oggi di Robert Altman) è bravissima. Il thriller politico si fonde con la denuncia. Firmato Ken il rosso. Questo film in cadenze da thriller getta una luce assai inquietante sulle responsabilità politiche della polizia di Sua Maestà, dei servizi segreti e anche dei servizi segreti americani. Tutti intenti a far diventare più solido il governo inglese. Lo stile di Loach è irruento, non ha paura di mostrare connivenze inglesi con organizzazioni criminali, probabilmente sovraccarica il tutto (non possiamo pensare che la giustizia e le legge in Inghilterra siano ridotte in uno stato così pietoso) ma ne sappiamo veramente poco per poter giudicare. Per essere un thriller è abbastanza verboso perchè si deve affannare a spiegare anche più del necessario ma è un film che entra sottopelle per la sua volontà di denunciare, di urlare al mondo intero tutta l'ingiustizia di cui si può essere vittime. La McDormand è la perfetta icona di donna forte e che non si arrende mai .Pur avendo debolezze è comunque un film da vedere e da apprezzare più per quello che dice che per come lo dice. L'atmosfera sulfurea che si respira, la paura di non farcela a dire al mondo intero tutte le brutture che si stanno commettendo creano una suspense opprimente, un clima da stato di guerra che rende il film un accorato pamphlet per la causa rivoluzionaria irlandese....con buona pace dei sudditi di Sua Maestà.... Il ritorno al cinema (sebbene in Italia non sia mai uscito sul grande schermo, ma direttamente in vhs) di Ken Loach dopo circa un decennio di lavori televisivi è proprio con questo L'agenda nascosta. Si tratta della prima sceneggiatura per lui scritta da Jim Allen, che in seguito firmerà anche quelle di Piovono pietre (1993) e Terra libertà (1995)
Kapu

giovedì 11 luglio 2013

MY NAME IS JOE (Ken Loach)



Un film di Ken Loach. Con Peter Mullan, Louise Goodall, Gary Lewis, David McKay, Lorraine McIntosh, Marie Kennedy Titolo originale My Name is Joe. Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 105' min. - Gran Bretagna 1998

A Joe, ex alcolista piace il calcio, la sua donna e si fa in quattro per difendere Liam dalle insidie della vita. Joe è un proletario dall'aria sorridente, uscito dalla sua dipendenza all'alcol per riuscire a non disprezzarsi. Joe si dà da fare con un'energia inesauribile, per la scalcagnata squadra di calcio che allena nel quartiere più disgraziato di Glasgow. La vita sembra farsi più dolce quando Joe incontra Sarah, un'assistente sociale appena un pelo sopra di lui nella scala sociale. 
Dopo la parentesi spagnola di Terra e libertà e la trasferta in Nicaragua di La canzone di Carla, Ken Loach torna con My Name Is Joe (anticipato l'anno precedente da The Flickering Flame, il documentario sullo sciopero dei lavoratori portuali di Liverpool) ad osservare indignato le piccole storie di "ordinaria disperazione" del suo universo proletario, sfruttato e senza speranze, raccontandone ancora una volta i drammi e le paure di fronte al peso insostenibile di un'esistenza misera e alienante: scritto dallo stesso Paul Laverty di La canzone di Carla e che lo accompagnerà fedelmente nei film successivi, My Name Is Joe è un'opera amara e raggelante nel pessimismo che ne divora con crudeltà ogni fiammella di speranza, un "conte moral" sull'impossibilità del riscatto sociale, anche quando inizialmente vuol soltanto lasciarsi amare per la levità dei ritmi da commedia (si osservi, ad esempio, la comicità drammatica e tutt'altro che liberatoria della sequenza in cui Joe assale a colpi di pennello l'automobile del funzionario comunale venuto a privarlo dell'assegno di disoccupazione). Loach segue i suoi personaggi pressandoli (proprio nell'accezione più "calcistica" del termine) con la sua macchina da presa fino allo sfinimento, mettendoli con le spalle al muro, demolendone l'eroismo con i colpi delle convenzioni civili che ne circoscrivono la sopravvivenza ad una mera coincidenza di casualità, affidandone l'interpretazione ad un formidabile cast d'attori, a partire dal quartetto di protagonisti (con uno straordinario ed indimenticabile Peter Mullan, premiato anche a Cannes) e fino ad arrivare alle efficacissime caratterizzazioni dei personaggi di contorno, dal David Hayman nei panni del gangster alla Lorraine McIntosh (la vocalist dei Deacon Blue) che interpreta Maggie, l'amica del cuore di Sarah. "Il mio nome è Joe. Sono un alcolizzato". Loach maneggia questa sentimental comedy con la stessa leggerezza con cui aveva costruito la storia d'amore tra il conducente d'autobus e Carla nella "Canzone di Carla" (sceneggiato, come questo, da Paul Laverty). E la commedia si sposta verso un nero di devastante lucidità sociale, mentre il pessimismo di Loach si fa sempre più sconsolato.
pippi

LADYBIRD LADYBIRD (Ken Loach)


Un film di Ken Loach. Con Crissy Rock, Vladimir Vega, Sandie Lavelle, Mauricio Venegas, Ray Winstone Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 102' min. - Gran Bretagna 1994

Maggie ha avuto una vita piuttosto difficile, nel corso della quale ha messo al mondo quattro figli avuti da quattro uomini diversi, due dei quali di colore. Conosce Jorge, un immigrato sudamericano, e conquistata dalla sua dolcezza, va a vivere con lui. L'assistenza sociale però, intervenuta in seguito a un incendio scoppiato quando i bambini si trovavano soli in casa, scopre le "irregolarità" di questa famiglia. Quindi dichiara Maggie non affidabile, togliendole i figli. 
Il cinema sociale di Ken Loach raramente è stato così intenso e lacerante. E una volta tanto si spoglia di tutte le connotazioni politiche per raccontare la storia di una donna, Maggie, quattro figli da quattro padri diversi e una condotta di vita perlomeno discutibile. E un incidente in cui i suoi figli rischiano di morire mentre lei è a cantare al karaoke determina l'attenzione su di lei dei servizi sociali che le tolgono la custodia di tutti i suoi figli. La cinepresa di Loach è prepotente, fruga nelle emozioni tirate fuori chissà come dall'esordiente Crissy Rock, curiosamente scoperta dal regista proprio in un locale di karaoke .Le sue grida, i suoi pianti, il suo apparire così consumata dal distacco dei propri figli bucano lo schermo. E al di qua dello schermo si rimane inevitabilmente sconvolti perchè non c'è nulla di più crudele che togliere i figli a una madre che li ama. E' la legge, la miopia della burocrazia, l'anelasticità delle normative che male si adattano alla molteplicità di casi umani a cui devono essere applicate. Non c'entra la politica, c'entra la legge che non ammette che qualcuno possa cambiare nel corso della propria vita. Loach da questo punto di vista ci propone un punto di vista abbastanza neutrale perchè non fa nulla per rendere la protagonista più gradevole ai nostri occhi. La storia di Maggie è una storia che può succedere a tutte le latitudini e con governi di qualsiasi orientamento politico. Ha a che fare con lo sfacelo sociale lasciato dal thatcherismo ma la lady di ferro non è mai nominata ,nemmeno suggerita. La storia di Maggie commuove perchè potrebbe succedere a chiunque. E sconvolge perchè è tutto rigorosamente vero. Quando lo si vide al cinema, nel vecchio cinemino d'essai con i sedili di legno uscimmo dalla sala letteralmente sconvolti. Ora lo rivediamo e l'emozione nonostante sono passati più di 15 anni è ancora quella della prima volta. Altra cosa che rende questo film ancora drammaticamente attuale è che la situazione sociale non appare migliorata da quasi vent'anni a questa parte. Nè in Inghilterra, nè qui da noi. E un cinema come quello di Loach che si "limita" (ma è una limitazione per modo di dire ,il suo è un talento cristallino che gli permette di raccontare le varie vicende con stile quasi documentaristico) a filmare la realtà non filtrandola in alcun modo, è oltremodo necessario in un mondo dominato dal disagio sociale e che è sempre alla ricerca di chi racconti la verità..... L’ambientazione, il contesto sociale degradato, la difficoltà quotidiana dell’esistenza delle persone in situazione di disagio, le ingiustizie e i problemi di un sistema che, dopo la “cura” Thatcher e il declino economico, comincia a mostrare preoccupanti segni di tenuta del welfare, sono mirabilmente tratteggiati da un grande regista ancora in grado di colpire nel segno.
pippi

MIRACOLO A LE HAVRE (Aki Kaurismäki)



Titolo originale Le Havre. Commedia, durata 93 min. - Finlandia, Francia, Germania 2011

Marcel Marx un calzolaio di Le Havre, trascorre una esistenza modesta ma tranquilla al fianco di sua moglie. Non sa però che la donna cova una malattia grave che fino a quel momento gli ha nascosto. Quando la donna capisce di non poter più mentire, per Marcel il colpo è durissimo. Così, mentre vaga sconvolto per il porto di Le Havre, incontra un ragazzino africano, un immigrato clandestino che in ogni istante è minacciato di essere allontanato. Marcel si affeziona al ragazzo e si mette così in testa di proteggerlo.
Kaurismäki – colui che ha dedicato trilogie a proletari e perdenti – rappresenta i margini del mondo, con piglio brechtiano e surreale: non c’è naturalismo nel suo sguardo, sadico compiacimento o monito alla compassione, ma il filtro di un cinema ostinato, che riduce il reale a quadri da bande dessinée, stilizza un quartiere in un microcosmo dove vige nobile e gentile il mutuo soccorso, riabilita ideali scomparsi, fa dell’amore materia cocciutamente romantica. Parte dalla realtà dei giorni nostri, Kaurismäki. E la trasforma in una lirica popolare e astratta. Marcel Marx ha il nome di Carné, il cognome di Karl. Realismo poetico (Arletty è il nome della diva di quel periodo) e dialettica, perché il cinema non è la realtà, ma aiuta a comprenderla. Invertendola di segno, stampandone unicamente i positivi. Kaurismäki sposa Chaplin a De Sica, Tati a Bresson, Pagnol a Dreyer, sviluppa un’economia narrativa che ha De Oliveira come unico eguale, giura amore al cinema del Fronte Popolare, irride (tramite l’infame Léaud) gli snobismi della Nouvelle Vague. E questo miracolo d’estetica – in cui sottrarre non significa semplificare, in cui i dettagli dicono di un mondo – si fa opera etica e politica: Aki Kaurismäki non lava le coscienze, non permette l’indignazione usa e getta, non aderisce al dolore della verità. Ma ci invita a confrontarci con una bellissima bugia. «Ero già disincantato di fronte a molte cose fin dall’età di dieci anni, ma allora cercavo di fingere in modo da poter dare speranza agli altri». E mentre i lieto fine si affastellano inverosimili, un ciliegio in fiore richiama Ozu ai nostri occhi, che piangono lacrime sincere: perché è quell’eccesso di Grazia a ricordare alla favola d’essere una semplice e meravigliosa illusione. Chi conosce il cinema dell’autore finlandese sa bene che in tutto questa dimostrazione sentimentale per la parte più emarginata dell’umanità non c’è nulla di consolatorio, che lui preferisce l’ironia alla compassione, la concretezza dell’impegno ai sermoni "moralizzanti" sui drammi esistenziali. Col suo cinema, lui ama spesso sottolineare che la vita è una cosa che vale sempre la pena essere vissuta, nonostante tutto, ed è in fondo questo l’unico miracolo realmente riconoscibile e ragionevolmente condivisibile: perché i fiori saranno sempre bellissimi, i colori seguiteranno a squarciare di vivida luce il grigiore che avanza e il vino non finirà mai per i suoi poeti del disincanto.
Kapu

mercoledì 10 luglio 2013

INLAND EMPIRE - L'IMPERO DELLA MENTE (David Lynch)



Titolo originale Inland Empire. Drammatico, durata 172 min. - USA, Polonia, Francia 2006

Delirante, irraccontabile, "definitiva" opera di David Lynch. L'attrice Nikki Grace viene scelta per interpretare _Il buio cielo del domani_, remake di un film maledetto mai concluso a causa della morte violenta dei due protagonisti. Vittima di una sorta di transfert, Nikki comincia a immedesimarsi nel copione, finché realtà e finzione si mescolano senza soluzione di continuità... 
Lynch scriveva la sceneggiatura giorno per giorno, seguendo le strade perdute lungo le quali i suoi personaggi s'inoltravano. Ogni porta si apre su un'altra porta, ogni schermo su un altro schermo, nessuno può sapere con certezza se è spettatore o protagonista, se guarda o piuttosto è guardato. Quella parete in ombra, quel buco nero che ingoiava a metà film i protagonisti di Lost Highway per risputarli fuori in un'altra storia e un altro mondo si è illuminato ed è diventato il paesaggio labirintico nel quale il tempo e lo spazio si riavvolgono su se stessi senza soluzione di continuità. Girano in cerchio, come una puntina sul vinile. INLAND EMPIRE è un tuffo in un disegno di Escher, su scale che si inerpicano nel nulla, porte che si aprono su finestre, camere infinitamente concentriche. Un viaggio nel mondo di David Lynch guidato da un maestro di cerimonie d'eccezione, l?autore stesso, che sorride beffardo dietro la maschera accomodante del regista Jeremy Irons. La realtà razionale cede il passo all'universo onirico e surreale, dove Alice continua a infilarsi in specchi, case, vite sfuggite al controllo quotidiano e, a forza di aprire porte su altrove ignoti, riallaccia i fili della vita di un'altra Alice straniera, imprigionata davanti a un teleschermo. Ancora più libero ed estremo di Lost Highway e di Mulholland Drive, INLAND EMPIRE (una strada di East Los Angeles) è un paese come Twin Peaks, privo però della sua (relativamente) chiara segnaletica televisiva. Come a Twin Peaks, qui gira gente strana: una cinese e una nera che discutono sulla strada più breve per raggiungere Pomona con i mezzi pubblici, un produttore esecutivo che con spudorata flemma chiede qualche dollaro in prestito a chiunque, un gruppo di strampalati artisti del Baltico a un barbecue, tre conigli in un salotto, e le risate e gli applausi finti del pubblico che ne sottolineano ogni minima azione. Come a Twin Peaks, le chiavi per aprire i misteri sepolti e presenti si trovano solo sotto la superficie della nostra mente. Come a Twin Peaks, a INLAND EMPIRE, la mente se mai nasconde, ma non cancella. "INLAND EMPIRE" è un inno al cinema fatto da chi fa cinema.

tres


CONFIDENZE TROPPO INTIME (Patrice Leconte)



Un film di Patrice Leconte. Con Sandrine Bonnaire, Fabrice Luchini, Michel Duchaussoy, Molly Picon Titolo originale Confidences Trop Intimes. Drammatico, durata 104 min. - Francia 2003

Un equivoco dà origine a un'intensa relazione. Convinta di trovarsi nello studio di uno psicoterapeuta, senza essersi resa conto di aver sbagliato porta, Anna si confida con William Faber, consulente finanziario. Seguono altri appuntamenti, anche dopo che William le ha rivelato la sua vera identità...
Leconte dirige con maestria un “breve incontro” cinematografico di parole e sguardi. «Quello che si dichiara e quello che si nasconde» è una pratica che accomuna, in modo singolare e imprevedibile, il lavoro dello psicanalista (qualunque sia la sua scuola di riferimento, il suo nume tutelare, lo stregone della psiche che ne determina il metodo) e la professione, meno brillante, più precisa, più disturbante (per i clienti), del commercialista. Su quello che potrebbe sembrare un paradosso teorico e metodologico, Patrice Leconte struttura un sapido thriller dell’anima che si vorrebbe fosse interminabile come teorizzava Freud dell’analisi. Quello che conta nelle sedute sono soprattutto le parole, le affabulazioni, i ricordi, le fantasie, i desideri. La cura prevede un set in cui due coprotagonisti si spartiscono abbastanza rigidamente i ruoli: uno ascolta e l’altro parla. In fondo, sono ruoli alla portata di tutti. Anna (Bonnaire) sbaglia (un atto mancato o una scelta deliberata?) la porta d’ingresso su un pianerottolo e si trova a raccontare le sue pene matrimoniali a un fiscalista, William Faber (Luchini). Il consulente finanziario è un buon ascoltatore ed è attratto dalle confidenze della sua cliente per caso. Tra i due scatta una complicità rituale, si stringe un legame che è molto più suadente e sfuggente di uno scontato transfert tra paziente e analizzante. La cura serve ad entrambi. Leconte, servito a meraviglia da tutti i suoi interpreti (il cast è ammirevole anche nei ruoli più circoscritti), realizza il suo “breve incontro” intorno ad un divano e ribadisce che l’immaginario del cinema può essere fatto solo di parole e di sguardi. Dunque solitudine e bisogno di attenzione, forse di amore, voyeurisme nell’ascolto, ma anche nel vedere, c’è anche qui una finestra (Hitchcock) e ricordiamo L’insolito caso di Mr. Hire con quel guardare l’amore altrove del sarto solitario (“Ci sono punti in comune, ma quello era un film secco, sobrio, questo è più carnale”), lì il finale è drammatico, qui è catartico, sensuale e discreto al tempo stesso, liberatorio per entrambi, perché, continua Leconte: “Il miglior momento dell’amore è quando si salgono le scale, tanto meglio se il piano è più alto perché il momento si prolunga. Parlare d’amore o di sesso, far planare sulle teste un profumo di desiderio, di erotismo è qualcosa che io trovo estremamente cinematografico, mi piacerebbe che la gente uscisse dalla sala per andare a fare l’amore” .
Kapu

L'ESTATE DI KIKUJIRO (Takeshi Kitano)


















Un film di Takeshi Kitano. Con Takeshi Kitano, Kayoko Kishimoto, Yusuke Sekiguchi, Kazuko Yoshiyuki Titolo originale Kikujiro. Commedia, Ratings: Kids+13, durata 116 min. - Giappone 1999

Raccontare l’odissea di un bambino e del suo singolare compagno di viaggio. Con i toni dolci della commedia. È estate e Masao si sta annoiando. Il bambino abita a Tokyo con sua nonna che lavora tutto il giorno. I suoi amici sono partiti per le vacanze e il campo da pallone dove gioca con i suoi amici è deserto. Grazie ad un'amica di sua nonna, Masao incontra Kikujiro, un cinquantenne duro con il quale va alla ricerca della madre che non conosce e che vive vicino al mare. Kikujiro ha qualche difetto e sicuramente non è la persona adatta per accompagnare Masao nel viaggio, ma non può dirgli di no. 
Con un occhio a “Il monello” di Chaplin (l’ha dichiarato lo stesso Kitano), rivisto attraverso la tradizione moderna di road movie con bambini (per esempio, “Alice nelle città” di Wenders e “Paper Moon” di Bogdanovich), Kitano coniuga il suo straordinario senso cromatico (paesaggi che sembrano tele dipinte e le incredibili camicie hawaiiane dei due protagonisti) con il suo gusto per la comicità demenziale (i due trucidi “Hell’s Angels”, che finiscono per rivelarsi imbranati e giocherelloni, interpretati da due degli attori del gruppo “Takeshi Gundan”, con il quale Kitano lavora nei suoi spettacoli televisivi) e con quella malinconia della violenza e della perdita dell’anima giapponese che sempre serpeggia nei suoi film. La favola, che in fondo non è buona, ma rattristata dall’immagine di una madre che si è rifatta una vita “regolare” (come non ricordare Peter che in “Peter Pan nei giardini di Kensington” torna a casa e trova le inferriate alle finestre e la mamma con un nuovo bambino, appena nato?), concilia, almeno, sulla possibilità di solidarietà tra personaggi che, all’apparenza, non dovrebbero aver niente da spartire. Formalmente accecante, è capace di meraviglie visive con le suggestioni e i lampi generati dall’inconscio infantile e da quello, bizzarro, di un adulto che vive oltre la soglia dell’eccentricità. Follie di Takeshi Kitano, l’autore cattivo e inventivo che ha rianimato con folgoranti pennellate (“Hana-bi”) e suicidi in primo piano (“Sonatine”), con una violenza che, programmaticamente, sfiora sempre l’autoparodia e risate che paiono ferite che squarciano il volto umano, il cinema giapponese contemporaneo. Amatissimo dal pubblico dell’ultimo festival di Cannes, esce in Italia “L’estate di Kikujiro”, l’ultimo film di Kitano, spiazzante road movie “natalizio”, che descrive il viaggio attraverso il Giappone, durante un’estate calda, di Masao, un bambino alla ricerca della madre, e di uno stravagante ex yakuza un po’ suonato, cui Masao è stato affidato da un’amica della nonna.
Kapu

CHEF ( Daniel Cohen)

Locandina Chef
















Titolo originale Comme un chef. Commedia, durata 84 min. - Francia, Spagna 2012. - Videa - CDE uscita venerdì 22 giugno 2012.

Jacky è un cuoco dai gusti raffinatissimi costretto a misurarsi con taverne e bistrot parigini dove i clienti consumano solo cibo mordi e fuggi. Licenziato dall'ennesimo ristorante, trova un impiego come imbianchino in una casa di riposo per riuscire a sostenere le esigenze della compagna, incinta e prossima al parto. La sua attitudine per la nouvelle cuisine lo porta tuttavia a intromettersi continuamente nella cucina e nelle ricette per gli anziani, tanto da attirare l'attenzione di Alexandre Lagarde, famosissimo chef in crisi di ispirazione. Oppresso da un giovane imprenditore che minaccia di portargli via il suo ristorante, Lagarde offre a Jacky l'opportunità di lavorare al suo fianco per continuare a far brillare le stelle del suo gourmet.
Come si cucina una commedia europea non troppo speziata e adatta ai palati di tutto il mondo? Si prende un protagonista geniale e incompreso, gli si affianca un mentore in crisi di ispirazione e li si serve su un letto di valori positivi come amore, famiglia e difesa della tradizione. Et voilà, ecco la ricetta del perfetto prodotto da esportazione: abbinabile con ogni tipo di salsa e idealmente declinabile in un'infinità di remake, proprio perché basata sui piaceri primari della gastronomia contro ogni forma di vacua sofisticazione. Per Chef andare contro il sofisticato significa prima di tutto impastare una sceneggiatura semplice e appetibile e farla lievitare grazie alla popolarità trasversale di Jean Reno e alla notorietà televisiva di Michaël Youn. I due attori funzionano piuttosto bene come abbinamento finché il film si attiene alle portate principali (l'amicizia maschile, la sfida a mantenere il prestigio culinario), ma tendono a farsi incolore negli elementi di contorno (dissidi romantici; siparietti farseschi).Tipica rappresentazione di un cinema "da asporto", facile e veloce da consumarsi, Chef, al contrario di quanto racconta, preferisce i gusti semplici agli accostamenti arditi, i sapori edulcorati a quelli veraci. E si accompagna rigorosamente con un bicchiere d'acqua fresca.

tres                 

FRATELLI (Abel Ferrara)

Locandina Fratelli
















Un film di Abel Ferrara. Con Christopher Walken, Annabella Sciorra, Isabella Rossellini, Vincent Gallo, Chris PennBenicio Del Toro, Victor Argo, Gretchen Mol, Mimsy Farmer, Rudiger Vogler
Titolo originale The Funeral. Drammatico, durata 103' min. - USA 1996

A metà degli anni '30 a New York, durante la veglia funebre, i fratelli Ray e Chez Tempio decidono di vendicare l'assassinio del più giovane Johnny. Più che un mafia movie, è una tragedia morale mimetizzata da film gangsteristico che fa irrompere il "sacro" (l'esistenza di Dio e quella del Male, l'etica cristiana, il libero arbitrio, la vendetta, il perdono, la carità) nei codici di un genere cinematografico. Scritto dal geniale Nicholas St. John, abituale collaboratore di Ferrara, e fotografato da Ken Kelsh su due tonalità dominanti (nero, verde), si conclude con una strage che l'avvicina ai massacri del teatro elisabettiano. Una delle novità del film che ha poco da spartire con quelli analoghi di Coppola e Scorsese, è il ruolo positivo, antagonistico e rivelatorio delle mogli. Passa attraverso loro la critica laica (o protestante?) al familismo amorale di fondo cattolico/mediterraneo che è alla radice del costume e della mentalità mafiosa. Straordinaria compagnia di attori. Coppa Volpi a Venezia per C. Penn.

tres              

L'ODIO (Mathieu Kassovitz)



Titolo originale La haine. Drammatico, Ratings: Kids+16, b/n durata 95 min. - Francia 1995

In un quartiere periferico di una città francese come tante, fatto di miseria, etnie più o meno assortite e criminalità di vario genere, soffia il vento della rivolta. L'occasione che la fa esplodere è il brutale interrogatorio a cui la polizia sottopone un ragazzo di sedici anni. Nella lotta emergono le difficoltà e le differenti personalità di tutti i giovani che sono stati coinvolti. Non andrà bene per tutti.
L'urlo della banlieue. Vite buttate agli angoli di una periferia come tante. Sono talmente tante queste banlieues che non hanno nomi ma solo numeri .E sono tutte uguali almeno a prima vista. Così come i ragazzi che le abitano sono accomunati dagli stessi sogni per il futuro (hanno tutti il minimo denominatore della fuga), dagli stessi incubi del presente (la violenza impera), dalla stessa mancanza di prospettive e soprattutto dall' odio verso le istituzioni e la polizia vista esclusivamente come braccio armato di una sorta di dittatura. E'questo il clima sulfureo in cui Kassovitz cala la sua opera seconda, un film girato in un bianco e nero roboante e uno stile ultrarealista, talmente più vero del vero che suscita sospetti. La macchina da presa si muove nervosa, il montaggio in certi frangenti arriva a essere frenetico, tutto ottimizzato per rendere al meglio il clima di ansia e di urgenza che si respira in tutto il film. Ma non è un caso che emerga la cinefilia del regista (la citazione di Taxi driver quando Cassel imita Travis Bickle davanti allo specchio) e anche qualche preziosismo nascosto tra le righe. Kassovitz racconta il fermento di questi giovani emarginati che cercano una speranza: li accompagna nella loro giornata che si snoda tra incontri vari, passeggiate in una terra di nessuno, piccoli scontri con la polizia che cerca di ristabilire una minima parvenza di ordine in questa parte di città dimenticata. Il tono che inizialmente è più leggero (termine da prendere nel senso più esteso possibile) mano mano si incupisce. L'odio è annidato in entrambi gli schieramenti sia tra i rivoltosi che tra i polziotti e Kassovitz insinua il dubbio che a volte fare il poliziotto non significa stare automaticamente dalla parte della legge. E comunque alla luce del finale non è possibile alcuna riconciliazione. La banlieue rimane un ghetto di emarginati, quasi un appendice inutile da troncare. Tutto il significato del film è racchiuso in quella storiella che viene raccontata da Hubert , di uno che si butta dal cinquantesimo piano e a ogni piano continua a ripetere "Fin qui tutto bene". Il problema è l'atterraggio,non il volo. L'odio rinuncia a sociologismi d'accatto consegnando ai posteri quasi un invettiva rap in cui cerca di distribuire virtù e vizi da entrambe le parti della barrricata. Il film all'epoca fece voltare più di una testa nella critica cinematografica di allora. Avevano ragione, peccato che la carriera da regista dell'allora 28enne Mathieu non si sia confermata poi a questi livelli. La cosa che colpisce ancora a distanza di anni di questo film è la sua stringente attualità: la banlieue col tempo è diventato un non luogo cinematografico in cui si aggira parte del cinema francese. Ma l'emarginazione è rimasta la stessa. Anche se talvolta qualche figlio della banlieue si riscatta riuscendo ad oltrepassare quella dannata barricata diventando ricco e famoso senza per questo dimenticare le proprie origini e gli amici di un tempo ,vivi o morti. 
Kapu

LA SCHIVATA (Abdel Kechich)



Un film di Abdel Kechiche. Con Osman Elkharraz, Sara Forestier, Sabrina Ouazani, Nanou Benhamou, Hafet Ben-Ahmed, Aurélie Ganito, Carole Franck, Hajar Hamlili, Rachid Hami, Meriem Serbah, Hanane Mazouoz, Sylvaine Phan Titolo originale L'Esquivé. Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 117 min. - Francia 2003

Banlieue di Parigi, gruppo di ragazzi in un esterno. Per amore di Lydia, Crimo cerca di avere la parte di Arlecchino nella recita scolastica tratta da Marivaux. Ci riesce, ma poi è impacciato e paradossalmente, vista la maschera, “incolore”. Intanto, sul palcoscenico della vita, incroci, sproloqui, contaminazioni: ragazzini e ragazzine beur che giurano “sul Corano della Mecca”, sinofrancesi di prima generazione, sbirri incattiviti dai luoghi, refurtiva e droga, “l’odio” che impregna l’ambiente. La denuncia di un certo male di vivere fa da sfondo sommesso all’evoluzione emotiva dei ragazzi, come un qualcosa che esiste ma che intanto è impegnato ad occuparsi d’altro, assorbito nell’eccezionalità dell’ evento teatrale che riesce a interrompere il monotono rincorrersi dei giorni.
Quella di Abdel Kechiche è una camera stylo che racconta con pudica forza i suoi personaggi, applicando una poetica "alta" (Marivaux: è il condizionamento sociale a rendere schiavi di un ruolo e di un ambiente) a un contesto terribilmente "basso". La banlieue, la frontiera, la darkness on the edge of town dove i destini sono (già) segnati. Senza didascalismi, retorica o quant'altro, tutto in stato di grazia a partire dai due protagonisti. Il doppiaggio eccede in romanesco ma è inutile accanirsi. Questa volta era impresa ardua. Tuttavia, signori, un film straordinario. Libero. Sincero e appassionato come L’eau froide di Assayas, rigoroso e “etico” come Loin di Téchiné. Veramente il titolo mancante, in quest’epoca di “magra”, per riconciliarsi con il cinema. Quella di Abdellatif Kechiche è una camera stylo che racconta con pudica forza i suoi personaggi, applicando una poetica “alta” (Marivaux: è il condizionamento sociale a rendere schiavi di un ruolo e di un ambiente) a un contesto terribilmente “basso”. La banlieue, la frontiera, la darkness on the edge of town dove i destini sono (già) segnati. Senza didascalismi, retorica o quant’altro, tutto in stato di grazia a partire dai due protagonisti. C’è un po’dello sguardo etico dei fratelli Dardenne in questo secondo lungometraggio di Abdel Kechiche, abbastanza di quel loro modo antiretorico di trattare la marginalità sociale standosene in disparte a registrare la vita che scorre. “La schivata” è un film di delicata crudezza che, concentrandosi sugli abituali “sproloqui” di un gruppo di adolescenti, ci parla delle difficoltà proprie di chi vive ai confini delle metropoli occidentali di affrancarsi dallo scomodo ruolo di emarginato sociale. L’espediente narrativo della preparazione di uno spettacolo teatrale ha un ruolo assolutamente centrale nell’economia del film e Abdel Kechiche lo usa, non per arrivare ad un elaborata riflessione sul confine tra realtà e finzione, sul ruolo dell’arte e sull’opera di mediazione dell’uomo-attore, ma per chiarire i tratti di una sorta di determinismo sociale attraverso la commistione esistenziale tra una realtà da rappresentare a teatro e i personaggi che dovranno interpretarla. La stessa struttura dell’opera di Marivaux ci suggerisce questo. 
Kapu

BAD BOYS (Rick Rosenthal)



Un film di Rick Rosenthal. Con Sean Penn, Reni Santoni, Clancy Brown Drammatico, durata 123' min. - USA 1983

Due bande di Chicago l'una contro l'altra armate. Mike O'Brien, che capeggia la prima, una sera uccide accidentalmente il fratello minore di Paco Moreno, il boss della banda avversaria. Per vendetta Paco violenta la ragazza di Mike, ma la faida non termina lì perché entrambi vengono rinchiusi nel carcere minorile di Rainford...
Dura pellicola sui disagi giovanili all'inizio degli anni 80 con una parte ambientata nelle strade malfamate (dove si spaccia e consuma eroina) e l'altra in carcere (dove i protagonisti subiscono soprusi). Bellissimo film. Una perla in un filone che negli anni 80' ebbe un discreto successo ovvero quello del disagio giovanile che si manifesta attraverso l 'impossibilità di via di uscita da una società che aveva ed ha un suo particolare slogan: "Largo ai giovani" "I giovani sono il futuro", ovvero la più grande truffa della civiltà unama. Sean Penn (O'Brian) incarna in modo "Stanislavskijano" un personaggio incredibilmente vero, incanalato come troppi in una società sporca e degradata che si rispecchia perfettamente nella giovantù di ieri e di oggi. Il tema del carcere è disegnato in modo efficace (ragazzi di ogni nazionalità: l'italiano, l'ebreo, l'irlandese ecc. in un ambiente malsano non diverso comunque dalla strada). Strada e carcere si trasformano cosi' un unico essere e questo vuol dire niente vittoria ma solo lasciare le quattro mura del carcere per sostituirle con le quattro mura che la società offre: il risultatato non cambia. I secondini si trasformano così in educatori, lo fanno come possono e duramente (bravissimi gli attori) cercando attraverso le parole di una vita vissuta (un carceriere e il direttore a O'Brian) una redenzione difficile da comprendere. C'è anche una bella storia di amicizia (Horowitz e O'Brian), una amicizia dettata anche dalle leggi di sopravvivenza in un contesto difficile ma anche vera. C'è poi un amore difficile ma anche questo vero quello tra O'Brian e la sua ragazza, il tema della vendetta che sottolinea la linea principale del film. Sono molti i temi presenti attualissimi e duri in una pellicola da riscoprire assolutamente. Filmissimo.

tres

martedì 9 luglio 2013

TRUE LOVE (Nancy Savoca)

Locandina True Love

















Un film di Nancy Savoca. Con Annabella Sciorra, Aida Turturro, Ron Eldard, Roger Rignack Commedia, durata 104' min. - USA 1989.

Giovane coppia di italoamericani del Bronx (New York) si prepara alle nozze: lei determinata, lui riluttante. Forte la pressione delle due famiglie. "Si piange, si ride, ci si ubriaca, si litiga con buona velocità e simpatia. Ma sostanzialmente non succede niente. Il che è anche il grande, vecchio segreto di ogni telenovela" (Gualtiero De Marinis). Il realismo psicologico della descrizione ambientale concede poco al folclore sentimentale dei film hollywoodiani dello stesso tipo. Scritto dalla regista con il marito John Guay.

tres

LO SPERONE NUDO (Anthony Mann)



















Un film di Anthony Mann. Con Ralph Meeker, Janet Leigh, Robert Ryan, James Stewart Titolo originale The Naked Spur. Western, durata 91' min. - USA 1953

Per risarcirsi di aver perduto quanto aveva di più caro, Owie Kemp (Stewart) dà la caccia a Ben Vandergroat (Ryan) sul quale pende una taglia di 5000 dollari. Lo cattura insieme alla sua ragazza Lina (Leigh) in una zona delle Montagne Rocciose, ma per scortarlo ad Abilene deve prendere con sé due infidi compagni, un cercatore d'oro (Mitchell) e un ufficiale disertore (Meeker). Durante il viaggio Ben gioca d'astuzia per seminare discordia tra i tre. 3° dei 5 western di J. Stewart con la regia di A. Mann e il 1° non scritto da Borden Chase, sostituito da S. Rolfe e H.J. Bloom. Il che purtroppo si sente, anche nel personaggio di Stewart, pur così sfaccettato nel suo impasto di dirittura morale e cinismo amaro. Il vilain R. Ryan gli ruba più di una volta la scena. La suggestione del paesaggio montagnoso, esplorato nei minimi anfratti dalla cinepresa di William Mellor; il rapporto tra personaggi e natura; l'insolita importanza drammatica del personaggio femminile; uno splendido duello finale ne fanno un western da non perdere. Girato nel Colorado. Nomination all'Oscar per la sceneggiatura.

tres

BATTE IL TAMBURO LENTAMENTE (John Hancock)

Locandina Batte il tamburo lentamente

















Un film di John Hancock. Con Robert De Niro, Michael Moriarty, Vincent Gardenia, Heather MacRae, Phil Foster Titolo originale Bang the Drum Slowly. Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 97' min. - USA 1973.

Henry e Bruce giocano nella stessa squadra di baseball e sono grandi amici. Bruce s'ammala di un male incurabile, ma grazie all'amico, che intanto sta diventando un gran giocatore, passa i suoi ultimi mesi alla grande. Hancock, regista-produttore indipendente, ha legato il suo nome a questo insolito film intimista, tratto da un romanzo di Mark Harris.AUTORE LETTERARIO: Mark Harris.

tres              

BELLAMY (Claude Chabrol)



Giallo, durata 110 min. - Francia 2009

Come ogni anno il commissario Paul Bellamy va in vacanza a Nîmes, nella casa di famiglia della moglie Françoise per passare qualche giorno di relax.Ma le cose si complicano con l'arrivo del fratellastro Jacques, giovane e meschino avventuriero con una certa passione per l'alcool, invidioso, in fondo, della vita tranquilla del commissario e della sua stabile e felice vita professionale e familiare.Come se non bastasse Bellamy viene contattato da un certo Nol Gentil, un soggetto in fuga, nascosto in un vicino motel, che teme di aver ucciso un uomo, non si sa chi, non si sa perché. Intrigato dal personaggio decide di lanciarsi nella risoluzione dell'enigma e di dedicare tempo e risorse intellettuali per salvare un possibile assassino.Il tutto sotto lo sguardo ostile del fratellastro che farà di tutto per rendere le cose ancora più complicate. 
Con "Bellamy" Claude Chabrol torna al giallo, poggiando invero una trama imbevuta di dramma sulle solide basi di una commedia vagamente brillante. La solita mescolanza di generi dunque, e considerando che a mio avviso il precedente "L'innocenza del peccato" rappresentò un passo indietro nella filmografia di Chabrol, direi che "Bellamy" segna anche il ritorno al suo splendore : un film che ha la leggerezza tipica del buon prodotto nato per la televisione e la raffinata sottigliezza analitica che si richiede al giallo d'autore. Un'opera che conserva i tratti tipici della sua poetica ed è ben supportata da una shiera di buoni attori su cui spicca la gigionesca prova di un Gèrard Depardieu in ottima forma. Superba la caratterizzazione dei personaggi, tipizzati al punto da formare un quadro di provincia (sempre quella) di conturbante ambiguità all'interno del quale Bellamy si muove, non tanto con lo scopo di di scoprire il responsabile di un delitto, quanto di svelare i meccanismi che stanno dietro alla produzione di una colpa : per capire, senza giudicare. Bellamy fa tappa in diversi luoghi e sosta accanto a diverse esistenze, tutte con un presente chiaramente evidenziato e nessuno che non trasmetta il dubbio che non tutto è come sembra (a partire dai suoi ammiccamenti erotici con la moglie e dal rapporto col fratello). E' sempre così con Chabrol, "c'è sempre un'altra storia, c'è più di quello che si mostra all'occhio" (recita la didascalia finale riprendendo dei versi di W.H.Auden). Il suo è un cinema che si nutre di sensazioni perchè le cose importanti sono quelle che accadono sullo sfondo, lontane dalla ribalta, più a livello percettivo che cognitivo. In superficie abbiamo sempre la certosina delineazione psicologica dei personaggi, quella che ci lascia intendere anche ciò che non vediamo. Questo è stato sempre il modo con cui Chabrol ha inteso esplicitare la sua "militante" accusa alla morale borghese : smascherare il torbido che cova sotto ogni esistenza apparentemente proba. Con questo film Claude Chabrol ha inteso omaggiare Simenon e Brassens. "In omaggio a due George" è scritto all'inizio, ed infatti il film riflette, tanto le atmosfere intriganti del grande scrittore, quanto il libertinismo anarcoide dello chansonnier. Si sente soprattutto la presenza di Brassens (il film parte dal cimitero in cui è sepolto), la sua opera, la sua musica, la sua poetica, finanche la sua tomba. E ci alziamo in piedi.
Kapu

IL FIORE DEL MALE (Claude Chabrol)



Un film di Claude Chabrol. Con Nathalie Baye, Benoît Magimel, Suzanne Flon, Bernard Le Coq Titolo originale Le Fleur du mal. Drammatico, durata 104 min. - Francia 2002

La borghesia della provincia francese, la sua ipocrisia, i suoi scheletri nell'armadio. Una donna viene assolta, nonostante la sua colpevolezza, alla fine della Seconda guerra mondiale: è questo lo spunto di partenza per seguire le peripezie degli Charpin-Vasseur, esponenti di spicco della borghesia di Bordeaux. La loro storia è segnata da una serie di morti misteriose, come se la colpa fosse una tara ereditaria che si trasmette di generazione in generazione. Un crimine commesso nel passato, e non espiato, può dunque avere ripercussioni sui discendenti... 
Quieta, educata e agghiacciante, la pellicola di Chabrol è la versione stilizzata, asciugata, serenamente e atrocemente pessimistica di tante altre vicende di famiglie, destini e province raccontate dal maestro francese. Non c'è più bisogno di intrusioni esterne che vengano a turbare malsani equilibri, né di diseredati che scompaginino armonie borghesi. I "corvi" anonimi sono quelli che ci si è allevati in seno: bastano cinque personaggi che riassumono tre generazioni, e quel tempo profetico che si ripete sempre uguale a se stesso e che si snoda senza soluzione di continuità davanti agli occhi della decana zia Line (la vera protagonista del film: l'esile, dolcissima e volitiva Suzanne Flon, una grande interprete del passato). Chabrol è arrivato al cuore del suo mondo e del suo stile: niente colpi bassi, il malessere è intessuto nelle tappezzerie di casa e negli abiti "bon ton" degli Charpin-Vasseur; prende corpo dal giardino curato e dall'aria tersa, chiuso nella consapevolezza inossidabile degli occhi di Line. I fiori del male era una raccolta di poesie del maledetto Charles Baudelaire e solo il più perfido osservatore della borghesia francese poteva girare un film così, prendendo in prestito quel titolo tanto evocativo quanto affascinante. Claude Chabrol sa di cosa parla e ci sguazza in questo mondo in cui l’ipocrisia ha preso il posto della sincerità con una disinvoltura di cui non ci stupiamo più minimamente. « Ma petite chérie, le temps n’existe pas, tu verras. C’est un présent perpétuel ». « Vedrai, piccolina mia, il tempo non esiste. E’ un perpetuo presente »
Kapu

GRAZIE PER LA CIOCCOLATA (Claude Chabrol)



Un film di Claude Chabrol. Con Jacques Dutronc, Isabelle Huppert, Anna Mouglalis, Rodolphe Pauly Titolo originale Merci pour le chocolat. Drammatico, durata 110 min. - Francia 2000.

André Polonski, famoso e celebrato piansista e Mika Muller, presidente dell'industria del cioccolato Muller si sposano per la seconda volta. Il concertista anni prima aveva sposato Lisbeth dalla quale aveva avuto un figlio Guillame e che era morta in seguito ad un incidente automobilistico. Jeanne che apprende per puro caso di essere stata scambiata al momento della nascita con un Guillame entra nella vita di André per scoprire la verità. 
Ogni tanto succede ancora il miracolo di vedere un film bello, impeccabile, inattaccabile. Questo onore è toccato all’ex enfant terrible della Nouvelle Vague Claude Chabrol, che mette sullo schermo le sue conoscenze cinefile (Lang, Hitchcock, Renoir) con grande eleganza e senza un minimo di autocompiacimento. Da tempo, i luoghi che più lo affascinano sono le località di provincia, dove tutto sembra tranquillo e pulito ma dove la borghesia perbene può nascondere orribili segreti e perversioni. Questa volta non siamo però nella provincia francese ma nella Svizzera, dove il perbenismo è ancora più spalmato nei meandri della società e dove i buoni borghesi possono conversare con elegante cinismo sui fondi sottratti agli ebrei dai nazisti e conservati nei conti segreti delle potenti banche. Protagonisti del film sono una industriale del cioccolato, un pianista di successo, una responsabile del servizio di medicina legale e due figli che (forse) sono stati scambiati nella culla. La suspense cresce minuto dopo minuto, la storia avvolge e intriga, gli attori sono straordinari, il divertimento è assicurato. E tutto senza bisogno di effetti speciali per allocchi e di star-system esasperato: bastano pochi ambienti, suggestioni, atmosfere, sono sufficienti sguardi impercettibili. Grazie per la cioccolata — tratto dal libro The Chocolate Cobweb di Charlotte Armstrong — con una sceneggiatura firmata dal regista insieme a Caroline Eliacheff (già con Chabrol per Il buio nella mente, 1995, e ancora al suo fianco per Il fiore del male, 2003), intriga e fa riflettere, con una suspense che cresce ad ogni nota di pianoforte ed un’orrida consapevolezza che si solidifica sempre più man mano che si realizza che il Male è tanto più agghiacciante quanto più, originandosi dalla mancanza di affetto e dolcezza, finisce per assumerne quasi le medesime forme. Quelle di una tazza di cioccolata nera bollente, appunto. E' l'ennesima incursione di Chabrol nelle fitte e oscure trame della ragnatela della famiglia borghese benestante, in cui si annidano misteri, occultamenti e segreti indicibili. Girato con la consueta pacata cura, dato il ritmo piuttosto basso che lo contraddistingue, il film trova il suo motivo principale di appeal nella presenza della sempre encomiabile Isabelle Huppert, che Chabrol aveva già utilizzato numerose volte fin da Violette Noziere del 1977. Degna di nota anche la figura enigmatica (e la prestazione) di Anna Mouglalis, che contribuisce quindi a caratterizzare al femminile la pellicola; colpisce inoltre per la sua patina avvolgente la fotografia di Renato Berta (già con Malle, Resnais, De Oliveira e molti altri grandi nomi). Come di consueto nel cinema di Chabrol, lo scorrere apparentemente pacifico o comunque privo di netti, profondi traumi, da parte della trama è sempre accompagnato in sottofondo dal crescere di un'insospettata inquietudine, che qui sfocia in tutto il suo impeto nella scena conclusiva.
Kapu

IL COLORE DELLA MENZOGNA (Claude Chabrol)



Titolo originale Au coeur du mensonge. Drammatico,durata 113 min. - Francia 1999

Nel villaggio di Saint Malo alcuni bambini trovano il corpo senza vita di Eloise, bambina di dieci anni. Frédérique Lasage, una giovane commissario di polizia comincia le indagini e inizia ad interrogare René, professore di disegno che sembra sia stato l'ultima persona ad aver visto la ragazzina viva. Ben presto le dicerie sul conto di René e della moglie Viviane si sprecano e il loro equilibrio di coppia comincia a vacillare anche a causa di un affascinante scrittore. Una seconda morte violenta paralizza la cittadina. 
Sospetti, esistenze naufraghe e naufragate, altri delitti: la trama gialla può intrigare ma a Chabrol interessano soprattutto le persone, i volti, le re(l)azioni umane e (come suggerisce il titolo originale) andare “al cuore della menzogna”. Come spesso accade, i personaggi dei suoi film sono trattati in modo da farceli apparire dapprima persone integerrime, poi come molto somiglianti a normali esseri umani con le proprie piccole e grandi debolezze e infine come degli esseri che nascondono infamanti segreti. E' un tratto tipico del suo cinema questo e ne rappresenta anche un punto di forza dato la credibilità che riesce a conferire al tipo d'autore descritto che, rimanendo "Al colore della menzogna", è di quelli che crede di trovarsi sempre dalla parte giusta del mondo e l'ipocrisia delle sue azioni è vissuta con la naturalezza propria di chi la concepisce come un corollario inscindibile per la salvaguardia della sua posizione sociale. In altri termini, Chabrol non ti sputa mai in faccia la cattiveria umana ma ti costringe a trovarla tra le pieghe di vite all'apparenza probe. In questo film non si ha mai l'impressione di trovarsi di fronte a persone capaci di fare del male eppure ci sono: un pervertito che ha ucciso una bambina, dei trafficanti di opere d'arte trafugate dai luoghi sacri, un assassino, situazioni di tradimento coniugale e la classica litania di pettegolezzi di bassa lega. "Il colore della menzogna" si insinua tra le dissertazioni alte sui confini tra il bene e il male col tocco lieve di una parola utile alla causa e la discrezione di chi non vuole recare disturbo. Non il miglior Chabrol ma un buon film, con tocchi di gran classe disseminati qua e là e buone prove d'attore tra cui merita un rilievo particolare l'onnipresente talento dell'esile Sandrine Bonnaire. Un cinema fuori tempo e fuori dal tempo, coerente e allergico alle mode, dove gli attori sono determinanti. Come, per esempio, Jacques Gamblin che (malgrado un doppiaggio italiano penalizzante) emerge con mille sfumature. E come Sandrine Bonnaire, bambina col corpo di donna e gli occhi allagati nella melanconia.
Kapu

ROSSO NEL BUIO (Claude Chabrol)



Titolo originale Les Liens de Sang. Drammatico,durata 95' min. - Canada, Francia 1977

Di ritorno da una serata, mentre rincasano, due cugine sono assalite da un uomo: una viene uccisa, l'altra, benché ferita, riesce ad avvertire la polizia. Le indagini si orientano nel mondo dei maniaci sessuali, ma non danno nessun esito. A questo punto però, Patricia, la sopravvisuta, denuncia suo fratello come autore dell'omicidio: ma l'ispettore Carella, trovato il diario di Patricia scopre la sconcertante verità. 
Un giallo/thriller a tinte fosche sul tema dell'incesto, tratto da un romanzo di Ed McBain con una sceneggiatura del regista e di Sydney Banks. Nonostante l'indiscutibile capacità di Chabrol di ricreare le atmosfere cupe di un delitto (notturno e sotto la pioggia) che porta con sè - in un parallelo formale - una situazione famigliare intricata e torbida, nonostante la buona tenuta della narrazione e nonostante le presenze nel cast di interpreti di ottimo livello come Donald Sutherland, Stephane Audran (allora moglie del regista), Donald Pleasence e David Hemmings; nonostante insomma una confezione assolutamente ineccepibile, Rosso nel buio non é un capolavoro. Tutto sommato è sempre il solito Chabrol, solo che questa volta il groviglio di vipere familiari non si trova nella provincia francese ma in una città nordamericana. Fatta la tara al manierismo di fondo resta uno spettacolo abbastanza godibile, con le svolte narrative inserite nei punti giusti e la solita aria ambigua che avvolge tutti, anche gli innocenti (innocenti?).
Kapu

GLI INNOCENTI DALLE MANI SPORCHE (Claude Chabrol)




Un film di Claude Chabrol. Con Rod Steiger, Romy Schneider, Paolo Giusti, François Maistre Titolo originale Les innocents aux mains sales. Drammatico, durata 120' min. - Francia 1975

Julie si annoia nella sua bella villa di Saint-Tropez; suo marito Louis è troppo anziano per lei e beve. Lei diviene ben presto l'amante del giovane scrittore Jeff. Anzi, tanto vale mandare al creatore l'alcolista Louis e godersi i suoi soldi. Senonché le cose non vanno precisamente secondo il progetto dei due fedifraghi. 
Da un romanzo di Richard Neely, Claude Chabrol ha tratto un film tanto elegante quanto freddo. Chabrol, assieme a Truffaut, era tra i più grandi ammiratori di Hitchcock e questa pellicola è un divertito omaggio alla sua poetica: partendo da un romanzo di matrice noir, il regista aggiunge un colpo di scena dopo l'altro, creando un effetto talmente inverosimile da sfociare nella parodia. In aggiunta, c'è una coppia di poliziotti sui generis, che entra ed esce dalla scena con incredibile nonchalance, un avvocato logorroico (grande Jean Rochefort) che gestisce la causa 'improvvisando' e la bellezza di Romy Schneider, davvero abbagliante. "Gli innocenti dalle mani sporche" servirà senza dubbio a tutti coloro che non sono mai riusciti ad apprezzare la bellezza dell'attrice austriaca: bastano i primi due minuti del film per farsene un'idea. Nulla, volutamente, mancava al film del thriller classico e pieno di personaggi e luoghi comuni, dalla coppia con la bella moglie giovane e il marito più anziano di lei, che non la soddisfa così da "costringerla" a trovarsi un amante, giovane bruno bello e assassino (scrittore), un piano perfetto per eliminare lo scomodo ricco marito e impossessarsi del suo bottino, gli errori la coppia di investigatori in paltò l'amico dubbioso e i colpi di scena.
Kapu

TOMBOY (Céline Sciamma)



Drammatico,durata 84 min. - Francia 2011

Laure si trasferisce con i suoi genitori e sua sorella minore in una cittadina in cui non conosce nessuno. Quando incontra Lisa, una ragazzina della sua stessa età, si fa passare per un maschio e così Laure diventa Mickaël e inizia sperimentare e a condividere il gioco con gli altri ragazzi. 
Céline Sciamma, giovane autrice i cui corti hanno conquistato Xavier Beauvois e André Téchiné, ha vinto con l’opera seconda, Tomboy, il Premio Queer del Festival di Berlino (il Teddy Award) e quelli di pubblico e giuria (assegnato all’unanimità) al 26° Torino GLBT Film Festival. E una volta tanto i premi sono serviti, se un film piccolo francese, senza volti noti, trova distribuzione nelle nostre sale. Tomboy, termine inglese che indica una ragazza con atteggiamenti da maschiaccio, racconta un’estate e una doppia vita, quella di Laure. Girato con mezzo milione di euro, in 20 giorni e con una troupe di sole quindici persone, Tomboy deve buona parte della propria fortuna all’alchimia del cast, dove la felice scelta della giovane protagonista Zoé Héran, presentatasi già con i capelli corti e l’amore per il calcio, ha portato automaticamente a includere nel film i suoi veri amici. La Sciamma impiega poi una messa in scena sobria, calibrata, e una fotografia chiara, che trasmette la sensazione, quasi fuori dal tempo, dell’estate di un gruppo di ragazzini, quando appunto ci si può illudere che una partita possa durare in eterno. Quasi l’altra faccia di Boys Don’t Cry, Tomboy dilegua la suspense dell’intrigo tra placidi pomeriggi assolati e, quando i nodi vengono al pettine, la resa dei conti schiva esplosioni drammatiche, preferendo il liquido sciogliersi della doppia identità in uno slancio di ottimismo verso l’apertura mentale dei bambini. Come in Tutti per uno di Romain Goupil, è loro la vera maturità. Un tema delicatissimo sulla identità sessuale pre-adolescenziale, la regista ha saputo raccontare in maniera discreta, leggera e mai invadente uno stato in cui ci siamo trovato tutti, dove gli adulti non possono che fare danni entrando a gamba tesa. La storia non propone nessuna difficoltà psicologica che porta ad una scelta, che solo le convenienze sociali drammatizzano, magari, provocando dei possibili danni di una vita. La scelta di Laure è casuale, non cercata e tanto meno malata, l'età presa in considerazione è quella dove si inizia a percepire le differenze sessuali, una sorta di frontiera dove le delicate posizioni e le scelte spesso vanno in tilt e provocano le difficoltà che noi tutti comprendiamo. Il gioco legato all'infanzia comincia ad essere insufficiente e l'allungamento di questo, per certe angolazioni, può portare ad una scelta di ruolo obbligata, che non tutti sanno accettare, magari perché ancora la maturazione del momento non è arrivata. La società impone dei comportamenti, che alcuni accettano come delimitazione naturale, altri non la prendono, giustamente, con la serietà proposta, perché la personalità ha bisogno ancora di sperimentare senza bisogno di esporsi ai rischi che una società impone. La Sciamma affronta l'argomento in maniera quasi documentaristica, non dà, quasi mai, giudizi se non quello di esporre un po' di più gli adulti che con il loro intervento, anche se non calcato, alimentano e sottolineano il problema rendendolo evidente e punibile. Lo stesso gruppo di ragazzini cambierà il tono, proprio su suggerimento degli adulti, iniziando il percorso di una società che apre loro le porte, con un senso morale pre-costruito, anche se indifferente. Il finale non dà una risposta, ma le due ragazzine escono dal senso di colpa che è stato loro attribuito, cercando una solidarietà che solo da loro può nascere, senza esporla agli altri. 
Kapu

QUALCHE NUVOLA (Saverio di Biagio)

Locandina Qualche nuvola

















Un film di Saverio di Biagio. Con Michele Alhaique, Greta Scarano, Aylin Prandi, Primo Reggiani, Giorgio Colangeli, Pietro Sermonti, Michele Riondino, Antonella Attili, Veronica Corsi, Paolo De Vita, Paola Tiziana Cruciani, Elio Germano
Commedia, durata 99 min. - Italia 2011. - Fandango uscita mercoledì 27 giugno 2012

In un quartiere popolare ai margini della città eterna, vive Diego, un giovane coscienzioso che ama il proprio mestiere, fa il muratore ed è molto stimato dal datore di lavoro, e sta per sposarsi con Cinzia. Sono cresciuti insieme, nello stesso condominio, sullo stesso pianerottolo. Per guadagnare qualche soldo in più e far fronte alle imminenti spese per il matrimonio, il ragazzo accetta un lavoro extra, la ristrutturazione di un grazioso appartamento nel centro storico abitato dalla bella e giovane nipote del capo, Viola.
Opera prima firmata da Saverio Di Biagio, Qualche nuvola attraverso una vicenda privata, racconta piuttosto bene, con levità, la vita di una borgata romana, dove qualsiasi decisione, problema o dubbio viene condiviso dai genitori, dai parenti o dagli amici. La mdp si limita ad osservare, a riprendere benevolmente quel che accade, restituendo gli affanni e le incertezze della futura sposa, sempre alla ricerca della migliore rubinetteria, del ristorante più adatto, del letto più comodo. Diego, dal canto suo, si lascia vivere, lascia che siano gli altri a prendere le decisioni importanti. Ma chi ha detto che il sogno più grande sia per forza quello del matrimonio con la ragazza della porta accanto?
A Diego sfiora il dubbio, soprattutto nel momento in cui entra in contatto con un altro mondo, con quello dei vernissage e delle abitazioni del centro, con una ragazza che gli chiede di esprimere opinioni ed emozioni, magari di fronte a qualche fotografia che ha da poco terminato di sviluppare.
Qualche nuvola ha tutti gli ingredienti per una commedia riuscita, riesce a caratterizzare e a rendere credibili i propri personaggi, evitando lo stereotipo, toccando temi importanti come la dignità del lavoro, l'importanza di scegliere la strada giusta, la lealtà verso la propria famiglia e verso i propri amici, la solitudine, oltre, ovviamente, a riflettere sul tradimento e sul senso del matrimonio. Tuttavia, ci pare un copione già visto, ci piacerebbe infondere un po' più di coraggio a quei personaggi, auspicando che il registro narrativo cambi rotta, magari per virare su toni meno realistici.

tres              

PROPOSTA INDECENTE (Adrian Lyne)

Locandina Proposta indecente

















Un film di Adrian Lyne. Con Robert Redford, Demi Moore, Woody Harrelson, Oliver Platt, Seymour Cassel,  Sheena Easton, Herbie Hancock, Billy Bob Thornton, Rip Taylor, Billy Connolly, Joel Brooks, Pierre Epstein, Danny Zorn, Kevin West, Pamela Holt, Tommy Bush, Mariclare Costello
Titolo originale Indecent Proposal. Drammatico, durata 118 min. - USA 1993.

Una giovane coppia a causa dei problemi economici si reca a Las Vegas per tentare la sorte al gioco. Ma ancora una volta la fortuna non li assiste. Viene loro in soccorso un affascinante miliardario che propone un patto sorprendente: in cambio di una notte d'amore con la giovane sposa corrisponderà ai due un milione di dollari. L'offerta turba il loro ménage. Infine e non senza sofferenze i due accettano. Le conseguenze saranno devastanti. Il marito non accetterà più di vivere con la donna che lo ha tradito per amor suo e rifiuterà il denaro. Ma il lieto fine è inevitabile. Film di grande successo proprio a causa dell'ipocrisia che dispensa sapientemente al pubblico. Una trama invereconda che solo per la presenza discreta di Redford appare meno insulsa di quanto non sia. Incredibile la supposizione che il laido Woody Harrelson possa competere con il pur attempato divo. Una barzelletta dilatata ad arte per la pruderie di un pubblico in vena di finte trasgressioni.

tres              

L'ULTIMA TEMPESTA (Peter Greenaway)



Un film di Peter Greenaway. Con Erland Josephson, Michel Blanc, John Gielgud, Isabelle Pasco, Michael Clark, Nastassja Kinski
Titolo originale Prospero's Books. Drammatico,Ratings: Kids+16, durata 125' min. - Gran Bretagna 1991

Prospero, ormai vecchio, è stato spodestato dal fratello e ha perso così il ducato di Milano. Ora vive su un'isola dalla quale, scatenando una tempesta, fa naufragare le navi di passaggio. 
Versione barocca e figurativamente smagliante (con ampio uso delle nuove tecnologie elettroniche) della "Tempesta" di Shakespeare. Atmosfere manieriste per una lotta tra il bene e il male declinata nel linguaggio aspro ed icastico della mitologia pagana. La "tempesta" è la furia degli elementi che si trasforma nella danza delle passioni umane, un turbine che le composte attività dell'arte e della sapienza non riescono a contenere, ma solo a sublimare e tramandare. Il contrasto principale è quello tra il fragoroso esercizio del potere e la quieta e silenziosa pratica dello studio. Le scene luminose del film sono esteticamente organizzate secondo precise architetture e coreografie, con solari profondità prospettiche, piene di grano, frutti, fiori, cavalli bianchi, e attraversate da voli acrobatici ed equilibrismi, a simboleggiare la fertile lungimiranza della disciplina, che è pazienza nella fatica, e si coniuga con l'amore inteso come sacrificio e devozione. Peter Greenaway carica il suo film di un decorativismo estremo, spesso sovraffollato di corpi nudi e, a tratti, straripante, che fa da plastico contrappeso alla verbosità irruente del testo shakespeariano, realizzando uno splendido equilibrio tra parole e immagini. L'oscillare perenne di Greenaway tra cornice e caos, tra finito e infinito è sfasatura suprema: noi nel mezzo della sua visione, troppo piccoli per entrare nel totale. Un film complesso debordante di richiami pittorici che va goduto al momento durante la visone ma anche e soprattutto nella post visione che diventa analisi, scavo e scoperta dell'universo Greenaway. Non è solo estetica ed estasi dei significanti. Il contenuto, o meglio i contenuti, sono innumerevoli e le varie scatole cinesi greenawayiane disvelano o nascondono la "giusta via" allo spettatore colpito e tramortito da un'orgia di colori, di corpi, di forme, che lo folgorano come una scarica da 220 tenendolo con la forza ancorato all'immagine che è opera pittorica in movimento in cui le lente carrellate (tipiche del regista alternate ad inquadrature in oggettiva) lo accompagnano poco a poco nei meandri della rappresentazione a cui non basta un'unica "doppia" dimensione, ma cerca una terza strada oltre il Cinema e verso e dentro l'Arte contemporanea. La narrazione classica è spazzata via da questa tempesta greenawayiana in cui utopia e razionalità trovano medesimo posto. Prospero come una sorta di Dio purificatore si vendica (per poi perdonare) di quegli uomini che hanno peccato nei suoi confronti e porta il macrocosmo-umanità nel suo microcosmo-isola, dove egli è il Creatore-padrone di tutto e in cui il "suo" Sapere è anche l'unico sapere. Egli è uomo e mondo stesso, terra e tiranno. Per chi non avesse visto alcuna opera di questo regista, di sicuro viene a mancargli una parte imporatante di quest'Arte, almeno degli ultimi 25 anni!. Quando si dice: il cinema allo stato puro. 

tres

OLIVER TWIST (Roman Polanski)

Locandina Oliver Twist

















Un film di Roman Polanski. Con Ben Kingsley, Frances Cuka, Barney Clark, Lewis Chase, Jake Curran,
Titolo originale OLIVER TWIST. Drammatico, Ratings: Kids+13, durata 130 min. - Gran Bretagna, Repubblica ceca, Francia, Italia 2005. uscita venerdì 21 ottobre 2005.     

Se c'è chi pensa che il detto "si nasce rivoluzionari e si muore conservatori" valga per il Roman Polanski che "illustra" (come alcuni hanno scritto) "Oliver Twist" di Dickens non si illuda. Il regista di Rosemary's Baby e di Il coltello nell'acqua ha conservato intatto il proprio sguardo attento agli angoli oscuri della società e della psiche. Uno sguardo mediato dall'esperienza di Il pianista e proprio da quel film di successo stimolato a rivisitare il proprio passato di bambino salvatosi dal ghetto di Cracovia con la madre uccisa ad Auschwitz. Lo fa per l'interposta persona di uno dei personaggi più famosi dell'universo dickensiano, quell'Oliver Twist che ha già costituito una fonte di ispirazione per il cinema.
Polanski legge la vicenda narrata dal grande autore inglese immergendola in una miseria materiale e morale quasi palpabile. Osservate l'illuminazione del film: è dominata da un buio sporco, per nulla gotico ma carico invece delle scorie prodotte dall'abbrutimento dell'essere umano al contempo carnefice e vittima nel tragico incedere dell'industrializzazione forzata. La luce di una bella giornata di sole è un fatto quasi incidentale, secondario, non "normale". Così al centro della storia sono sì le vicende dell'innocente orfanello costretto a far parte di una banda di ladri organizzati. Ma chi gli ruba il proscenio è Fagin nell'interpretazione magistrale che ne dà un irriconoscibile Ben Kingsley. È lui, padre e padrone della banda di ladruncoli, che detta i ritmi della vicenda con il suo corpo laido che percorre le stanze e le vie del degrado umano ricordando a tratti le caricature infami con cui i nazisti dileggiavano gli ebrei. In questo coacervo di bassezze, in questo "diavolo" Polanski va a cercare una scintilla d'umanità dandogliene testimonianza nella bella scena finale che evita il lieto fine consolatorio. Conservando però intatto lo spirito di un autore come Dickens che, figlio di un carcerato e abituato al lavoro duro fin dall'infanzia, ha ancora molto da dire a questo mondo che preferisce pensare che i bambini siano tutti come quelli della pubblicità. Pur sapendo benissimo che non è così.

tres