Un film di Aki Kaurismäki. Con André Wilms, Kati Outinen, Jean-Pierre Darroussin, Blondin Miguel, Elina Salo, Evelyne Didi, Quoc-Dung Nguyen, François Monnié, Roberto Piazza,Pierre Etaix, Jean-Pierre Léaud
Marcel Marx un calzolaio di Le Havre, trascorre una esistenza modesta ma tranquilla al fianco di sua moglie. Non sa però che la donna cova una malattia grave che fino a quel momento gli ha nascosto. Quando la donna capisce di non poter più mentire, per Marcel il colpo è durissimo. Così, mentre vaga sconvolto per il porto di Le Havre, incontra un ragazzino africano, un immigrato clandestino che in ogni istante è minacciato di essere allontanato. Marcel si affeziona al ragazzo e si mette così in testa di proteggerlo.
Kaurismäki – colui che ha dedicato trilogie a proletari e perdenti – rappresenta i margini del mondo, con piglio brechtiano e surreale: non c’è naturalismo nel suo sguardo, sadico compiacimento o monito alla compassione, ma il filtro di un cinema ostinato, che riduce il reale a quadri da bande dessinée, stilizza un quartiere in un microcosmo dove vige nobile e gentile il mutuo soccorso, riabilita ideali scomparsi, fa dell’amore materia cocciutamente romantica. Parte dalla realtà dei giorni nostri, Kaurismäki. E la trasforma in una lirica popolare e astratta. Marcel Marx ha il nome di Carné, il cognome di Karl. Realismo poetico (Arletty è il nome della diva di quel periodo) e dialettica, perché il cinema non è la realtà, ma aiuta a comprenderla. Invertendola di segno, stampandone unicamente i positivi. Kaurismäki sposa Chaplin a De Sica, Tati a Bresson, Pagnol a Dreyer, sviluppa un’economia narrativa che ha De Oliveira come unico eguale, giura amore al cinema del Fronte Popolare, irride (tramite l’infame Léaud) gli snobismi della Nouvelle Vague. E questo miracolo d’estetica – in cui sottrarre non significa semplificare, in cui i dettagli dicono di un mondo – si fa opera etica e politica: Aki Kaurismäki non lava le coscienze, non permette l’indignazione usa e getta, non aderisce al dolore della verità. Ma ci invita a confrontarci con una bellissima bugia. «Ero già disincantato di fronte a molte cose fin dall’età di dieci anni, ma allora cercavo di fingere in modo da poter dare speranza agli altri». E mentre i lieto fine si affastellano inverosimili, un ciliegio in fiore richiama Ozu ai nostri occhi, che piangono lacrime sincere: perché è quell’eccesso di Grazia a ricordare alla favola d’essere una semplice e meravigliosa illusione. Chi conosce il cinema dell’autore finlandese sa bene che in tutto questa dimostrazione sentimentale per la parte più emarginata dell’umanità non c’è nulla di consolatorio, che lui preferisce l’ironia alla compassione, la concretezza dell’impegno ai sermoni "moralizzanti" sui drammi esistenziali. Col suo cinema, lui ama spesso sottolineare che la vita è una cosa che vale sempre la pena essere vissuta, nonostante tutto, ed è in fondo questo l’unico miracolo realmente riconoscibile e ragionevolmente condivisibile: perché i fiori saranno sempre bellissimi, i colori seguiteranno a squarciare di vivida luce il grigiore che avanza e il vino non finirà mai per i suoi poeti del disincanto.
Kapu
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